Gaza, la vita dopo la tregua: violazioni, gelo e ricerca di normalità

La vita a Gaza dopo l’accordo di cessate il fuoco non migliora: le violazioni da parte di Israele sono quotidiane, come ha denunciato anche il primo ministro del Qatar, e solo pochi giorni fa un’altra madre ha dovuto seppellire suo figlio a causa di condizioni metereologiche proibitive per un neonato costretto a vivere in una tenda senza riscaldamento. Il piccolo Mohammed infatti è morto per ipotermia a soli 14 giorni di vita. L’ong CESVI è in Palestina da più 30 anni, e non ha mai smesso di operare anche durante questi anni di guerra, con tutte le difficoltà logistiche imposte da blocchi quasi integrali dell’ingresso di aiuti da parte di Israele, e con l’inizio del conflitto ha intensificato gli sforzi per fornire acqua pulita e servizi essenziali di igiene alla popolazione Gaza, oltre che per migliorare la gestione dei rifiuti, mitigare il rischio di alluvioni e ridurre i rischi di malnutrizione acuta. Abbiamo raggiunto Giulio Cocchini, Emergency Coordinator di CESVI, che già un anno fa ci aveva raccontato la situazione della popolazione palestinese, per un aggiornamento dopo la tregua firmata a ottobre. Ci siamo sentiti esattamente un anno fa. Oggi, dopo un anno, le cose sono cambiate perché è stata firmata una tregua. In che cosa vedi questo cambiamento, dalla tua esperienza di operatore umanitario? Hai fatto bene a chiamarla “tregua”, anche solo definirlo “cessate il fuoco” è un po’ improprio, perché il fuoco non è cessato. Ci sono state circa 700 violazioni in due mesi: più di dieci al giorno, e circa 400 vittime. E può sembrare un numero “basso” solo rispetto agli standard di Gaza, dove prima di questo cosiddetto cessate il fuoco in alcuni giorni si arrivava anche a cento vittime al giorno. Dove vive la maggior parte dei gazawi ora? La “linea gialla” di demarcazione definita con il cessate il fuoco separa l’area attualmente sotto il controllo di Hamas dall’area esterna sotto il controllo delle forze israeliane. Taglia la Striscia più o meno in due, con una leggera maggioranza di territorio controllata dalle forze israeliane. E crea due scenari completamente opposti: nella zona “gialla” sostanzialmente non è rimasto niente, troviamo solo macerie, quasi nessuno che ci abita, animali che vagano e devastazione. Nella zona interna si prova quantomeno a ristabilire un controllo con forze di polizia e istituzioni, e, nonostante la devastazione, è una zona brulicante di vita. Ci sono tendopoli a perdita d’occhio, edifici in gran parte danneggiati, ma comunque abitati per quanto possibile, e una densità di popolazione enorme: persone disperate, traumatizzate, esauste da due anni di guerra, che cercano in qualche modo di tenere insieme una vita nelle condizioni in cui sono obbligate a vivere, aspettando che le cose cambino, anche se non c’è chiarezza su come potrebbero cambiare in meglio. Fino a pochi mesi fa c’erano barriere all’ingresso di cibo e merci nella Striscia. Che cosa è cambiato? Entra più cibo? Il rischio di carestia si è ridotto? Sono entrati camion anche umanitari, ma in quantità totalmente insufficiente a coprire il fabbisogno. Soprattutto è esploso il numero di camion commerciali, del settore privato, provenienti da Israele, con canali separati da quelli umanitari, e rispondono a logiche commerciali: portano beni ad alto valore aggiunto per massimizzare il profitto. Quindi sì: nei mercati, nei minimarket, nei caffè e nei ristoranti si trova molto più cibo e molta più varietà. Abbiamo trovato cose che non ci saremmo mai sognati e che non avevamo mai visto prima. C’è la Coca-Cola, che neanche prima del 7 ottobre si trovava, ci sono persino le merendine, ma ci sono anche beni più importanti: la farina, per esempio, il cui prezzo è sceso tantissimo, e anche il gas per cucinare. Ma i prezzi restano molto alti e la maggior parte della popolazione non può permettersi di comprare al mercato e ha bisogno dell’assistenza umanitaria, che entra un po’ di più di prima, ma non ai livelli concordati durante il cessate il fuoco. E non vale solo per il cibo, ma per tutti gli altri materiali e per le forniture umanitarie fondamentali come tende, shelter, teli di plastica, coperte e vestiti invernali, prodotti igienici. Noi abbiamo migliaia e migliaia di kit igienici bloccati fuori perché nello shampoo c’è un ingrediente considerato potenzialmente utilizzabile, non so con quali processi, per costruire esplosivi. Ci sono poi materiali e macchinari pesanti che servirebbero per lavori essenziali come riparare reti fognarie e infrastrutture, servirebbero anche esplosivi per far brillare gli ordigni che sono ovunque e rappresentano un rischio, ma non entrano. Altre cose non entrano tramite i canali umanitari ma poi, in compenso, te li ritrovi sul mercato perché entrano attraverso i canali commerciali. Quindi noi, che costruiamo latrine e potremmo comprare materiali in Egitto a un prezzo giusto, dobbiamo comprarli sul mercato locale: sono stati importati da imprese private e costano dieci volte tanto, e alla fine fai un decimo delle latrine che servirebbero. Le organizzazioni non governative sono quasi totalmente bloccate nell’importazione di beni dall’esterno, perché c’è in ballo la ri-registrazione di tutte le ong presso il governo israeliano. Noi di CESVI, come le altre, abbiamo fatto domanda e aspettiamo ancora risposta. Speriamo che la situazione cambi con gli equilibri politici, le negoziazioni in corso, e con questo “international board of peace” che dovrebbe arrivare. Ma al momento restiamo estremamente vincolati nella capacità di fare aiuto umanitario, a causa di restrizioni imposte in modo arbitrario e sistematico. Ti chiedo dell’emergenza inverno, dopo che sono già morti due bambini per ipotermia, dovuta soprattutto alle condizioni in cui sono costretti a vivere. Che cosa sta succedendo? Quest’anno l’inverno è arrivato molto prima dell’anno scorso, già da metà novembre ci sono state piogge forti, che sono un disastro perché le tendopoli sono in zone per lo più facilmente inondabili. E quando diciamo che i siti sono sott’acqua, parliamo di una combinazione di acqua piovana che ristagna e acque nere che riemergono dal terreno, perché i sistemi fognari o non esistono o sono danneggiati e non reggono. Quindi l’acqua che entra nelle tende spesso non è solo pioggia o fango: sono anche acque nere, con tutte le conseguenze sanitarie immaginabili. E anche qui il problema è che non possono entrare personale e materiali che servirebbero per riparazioni. La pioggia è un problema, e lo è ovviamente anche il freddo. Non c’è combustibile per scaldarsi. Se compaiono i primi sintomi di congelamento, spesso non c’è un ospedale dove portare i bambini. Le coperte scarseggiano e costano molto, così come i vestiti pesanti. Le tende entrano nell’ordine di qualche migliaia al giorno, ma si stima che un milione e mezzo di persone avrebbe bisogno di tende e teli di plastica. Cosa sta facendo CESVI, con le possibilità limitate dalle restrizioni che ci raccontavi, per la popolazione di Gaza? Attualmente CESVI fornisce quotidianamente, a Gaza City e nel centro della Striscia, 50-55mila litri di acqua potabile nei campi sfollati. Le attività di distribuzione nella Striscia hanno raggiunto complessivamente circa 105.000 gazawi, con 30 milioni di litri di acqua distribuiti. In questo momento per arginare gli allagamenti stiamo distribuendo migliaia e migliaia di sacchi di farina svuotati nei campi di sfollatii: sono sacchi del World Food Program che erano pieni di farina, loro li danno alle panetterie che usano la farina e poi restituiscono questi sacchi, che diventano utili per creare barriere contro la pioggia. È un palliativo, una misura artigianale, ma con le restrizioni di cui parlavo è un metodo efficace. Durante le ultime piogge alcuni responsabili di campi ci hanno detto: “Il campo non si è allagato perché le protezioni erano lì.” Questo ci rende molto contenti. Al tempo stesso continuiamo a portare acqua, continuiamo a costruire latrine, continuiamo a fare piccoli lavori di riparazione del sistema fognario: tubature, grondaie. Proviamo a svuotare tombini o scavare canali di scolo. Sono operazioni che migliorano lo smaltimento e riducono il rischio di inondazioni: se i canali sono tappati, liberarli evita che il campo finisca completamente allagato. Abbiamo iniziato anche la rimozione dei rifiuti su larga scala con il trasferimento dai “primary collection point”, cioè i punti di accumulo vicini ai siti, verso discariche che esistono ancora. Sono difficili da gestire, ma ci sono luoghi designati come discariche. Aspettiamo di poter distribuire migliaia di kit igienici bloccati sia in Egitto sia in Giordania, e continuiamo a fare pressione per riuscirci. Nel frattempo facciamo anche distribuzioni di materiali che non abbiamo procurato noi, ma che ci vengono donati o affidati da altre organizzazioni, cercando di farli arrivare alle persone più in necessità con cui entriamo in contatto nei campi. Dal tuo racconto emerge che la tregua ha creato una situazione ancora precaria e difficile da prevedere. Ma si vede anche un “brulicare” nelle zone più vive, come un tentativo di ripartire. Parlando con le persone che conosci, con i colleghi, che idea c’è del futuro? Un desiderio di andarsene o di ricostruire e restare? Io parlo con persone che non sono rappresentative del “gazawi medio”: parlo con colleghi e partner di altre organizzazioni, persone che parlano inglese, quindi più istruite e magari con una visione politica di lungo periodo. E non ho una risposta semplice, perché ho sentito posizioni diverse. Ho sentito persone dire: “Io da qui non me ne vado. Piuttosto muoio qui: questa è la mia terra. Proveremo a ricostruirla e se non riusciremo, moriremo qui.” Ho sentito anche molte persone che non vedono l’ora di andarsene: aspettano solo che si aprano le porte, che si apra Rafah o altre strade per un’evacuazione “spontanea”, libera, volontaria. Soprattutto giovani, persone con figli, persone che hanno ancora un’ambizione per la propria vita e possono farlo fisicamente. Uno scenario possibile è che si aprano le porte, che le persone possano andare via, e che restino soprattutto anziani, persone con disabilità e con ridotta mobilità, mentre molte altre risorse se ne vanno a cercare un futuro più stabile. Eppure, ogni volta che si gira, a Gaza City, ma anche in altre cittadine, qui a Deir al-Balah, a Khan Younis, è sorprendente come le persone provino a ricostruire. Non ci sono macchinari pesanti per spostare le macerie, eppure vedi pezzi di palazzi spostarsi da un giorno all’altro e non capisci come abbiano fatto. Magari sotto un palazzo quasi crollato c’è una parte più stabile e compare un negozio. Vedi insegne nuove, stampate da poco: il kebab, il caffè, anche caffè “di un certo livello” per i pochissimi che possono permetterselo. È girato anche quel posto tipo “Nutella bar”: non sono fake, esistono davvero. Sono iniziative per l’1% della popolazione, ma sono comunque un segnale: un business, e il segno che la gente si rimbocca le maniche. Dopo il cessate il fuoco continua ancora di più: si è sentito un picco di matrimoni, si sentono feste in giro. Le persone guardano le partite: adesso c’è la Palestina in Coppa d’Asia e festeggiano. Piccolissimi elementi di normalità, però dentro uno scenario di devastazione. Sulle speranze politiche, l’impressione che ho avuto parlando con più di una persona è: “Fate quello che volete, ma lasciateci in pace.” Cioè: siamo disposti ad accettare qualsiasi cosa, Hamas, Israele che ci occupa, coloni, purché ci sia stabilità. “Che venga Trump, che venga Blair, che venga chiunque: l’unica cosa che mi interessa è poter dar da mangiare alla mia famiglia e non temere che esco per andare al lavoro e quando torno non ci sia più, perché è stata bombardata.” È la realtà con cui si sono confrontati negli ultimi due anni. Un’ultima domanda: rispetto alle violazioni della tregua, e ai rumori che mi raccontavi l’anno scorso, droni, bombardamenti, c’è un silenzio maggiore? Si “sente” la tregua anche da questo punto di vista? I droni sono una costante nella vita dei gazawi anche prima del 7 ottobre, le esplosioni si continuano a sentire, anche se molto meno di prima. Sono quasi tutte demolizioni controllate nella zona “gialla”, ma si sentono forti: fanno tremare porte e finestre perché vengono giù palazzi, come micro-terremoti. Noi ci siamo abituati, e i gazawi a maggior ragione, non si alza neanche lo sguardo. In questi giorni di pioggia ci sono stati forti tuoni, e mi sono ritrovato a pensare che all’inizio ti sembrano esplosioni. Per il resto, la colonna sonora di Gaza restano le voci delle persone che provano a vivere, i bambini ovunque, gli animali rimasti, con un sottofondo di bombe che continuano a fare da sfondo a una vita che prova a ricominciare.

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