La condanna di Jimmy Lai e il futuro delle proteste per la democrazia a Hong Kong

Come ampiamente previsto, nelle ultime ore, a Hong Kong, un tribunale giudiziario ha emesso una sentenza di colpevolezza a nei confronti di Jimmy Lai, già in carcere dal 2020. I dettagli della condanna saranno resi noti nelle prossime settimane, ma è probabile che l’ex editore e attivista pro-democrazia rischi fino all’ergastolo. L’accusa per lui è infatti pesantissima: “Collusione con forze straniere ai sensi della controversa legge sulla sicurezza nazionale della città”. Nel dettaglio, a quel che riporta BBC “la corte ha stabilito che Lai ha utilizzato il suo giornale Apple Daily, ormai chiuso, per fare pressione sui governi stranieri affinché imponessero sanzioni a Hong Kong e alla Cina”. La condanna a Lai e le accuse nei suoi confronti si inseriscono nell’ampia vicenda delle proteste per la democrazia a Hong Kong. Un movimento nato nel 2014 con la protesta degli ombrelli, a motivo degli ombrelli che i manifestanti usavano per proteggersi da idranti e gas lacrimogeni delle forze di polizia. Le prime proteste del 1997 A far nascere il movimento di protesta non violenta, che in buona sostanza consisteva nell’occupare degli spazi del centro finanziario della città, era stata la decisione di Pechino, che dal 1997, per effetto di un vecchio accordo con il Regno Unito, controllava l’isola, di consentire sì che si svolgessero elezioni, ma che queste potessero essere solo tra una serie di liste di candidati ‘pre approvati’ dal regime. Questo, per Hong Kong, terra abituata alla democrazia, apparve come un diktat intollerabile e da qui nacquero le proteste. Proteste che portarono all’occupazione di alcune aree della città e a una forte repressione da parte delle forze dell’ordine, ma che, in tutto non durarono più di 79 giorni, spente dalle lacerazioni interne al movimento, dalla durissima repressione e soprattutto dalla stolida indifferenza del governo di Pechino alle richieste delle piazze. Le proteste del 2019 e il ruolo di Apple Daily Alcuni anni dopo, nel 2019, altre proteste presero il via, a seguito della proposta di una legge che prevedeva la possibilità di estradizione forzata per chi fosse sospettato di crimini gravi e si fosse rifugiato a Hong Kong. Secondo l’opposizione il testo avrebbe potuto essere usato a fini politici. Da qui le proteste, più corpose e organizzate di quelle del 2014, e di qui la nuova repressione. In realtà, questa volta, un effetto le proteste lo ebbero, ossia quello di far ritirare il testo. Ma fu una vittoria di Pirro, perché, pochi mesi dopo il regime impose la Legge di Sicurezza Nazionale , che imponeva condanne pesantissime per chiunque fosse anche solo vagamente sospettato di azioni di dissidenza verso il regime. E la legge, scrive New York Times- “fu in gran parte una risposta alle diffuse e talvolta violente manifestazioni che hanno travolto il centro finanziario asiatico nel 2019”. Ed è in questo quadro che si collocano le colpe di cui il regime accusa Jimmy Lay e per il quale l’imprenditore è stato condannato. In quegli anni, infatti, Lai aveva deciso di finanziare la pubblicazione di un giornale, Apple Daily, che di fatto era l’organo ufficiale delle proteste e, in generale, dei movimenti per la democrazia a Hong Kong. Lo stesso Lai scese in piazza nel 2019. “Lai -scrive Associated Press - è stato arrestato ai sensi della legge sulla sicurezza nell'agosto 2020, quando circa 200 agenti di polizia hanno fatto irruzione nell'edificio dell'Apple Daily. È in custodia cautelare da dicembre 2020. Nel giro di un anno, le autorità hanno utilizzato la stessa legge per arrestare dirigenti senior dell'Apple Daily, hanno nuovamente fatto irruzione nei suoi uffici e hanno congelato 2,3 milioni di dollari di beni, costringendo di fatto il giornale a chiudere . L'ultima edizione del giornale è andata esaurita in poche ore, con i lettori che si sono accaparrati un milione di copie”. L’eco delle operazioni di polizia nella redazione del giornale, e poi della sua successiva chiusura fu enorme perché, come scrive Reuters, “l'influenza del giornale è stata ancora più ampia. È stato un faro di libertà di stampa nel mondo sinofono, letto dai dissidenti e dalla diaspora cinese più progressista, sfidando ripetutamente il crescente autoritarismo di Pechino”. Da quando l’Apple Daily è stato chiuso, nel 2021, di fatto, a Hong Kong non esiste più niente che assomigli alla libera stampa. E tanto meno a nuove proteste. E questo ci porta alle notizie di oggi e alla condanna di Jimmy Lai. Una condanna che fa scalpore per la notorietà e il rilievo del personaggio, ma che assomiglia ad altre centinaia comminate negli ultimi anni ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino dopo il 2019. “Le autorità di Hong Kong insistono sul fatto che lo stato di diritto sia intatto - scrive BBC - ma i critici sottolineano le centinaia di manifestanti e attivisti che sono stati incarcerati ai sensi della NSL e il suo tasso di condanne vicino al 100% a maggio di quest'anno”. In questo quadro è improbabile che nuove proteste prenderanno piede, con o senza Lai.

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Luciana Grosso