Il regista di “Sarajevo Safari”: “Ottenni testimonianze già rilevanti”

C’è un documentario del 2022, dal titolo “Sarajevo Safari”, dietro l’esposto che ha dato avvio alle indagini sul presunto turismo della morte degli anni Novanta durante la guerra in Bosnia, a cui avrebbero partecipato anche italiani. Il giornalista Ezio Gavazzeni che ha raccolto il materiale e ha depositato l’atto alla Procura di Milano aveva letto sui giornali dell’epoca dei casi di “safari umani” denunciati in alcuni articoli da testate bosniache e internazionali, ma dopo aver visto il film, a ottobre si è convinto a procedere con un’azione legale. A dirigerlo il regista sloveno Miran Zupanič sotto la casa di produzione Arsmedia. La pellicola non ebbe grande risonanza internazionale al momento dell’uscita, che risale a ormai tre anni fa, ma oggi è un tassello importante alla luce dell’inchiesta aperta dai magistrati italiani. Di certo, fece rumore quando fu presentata in Bosnia. La sindaca di Sarajevo di allora, Benjamina Karić, venuta a conoscenze del contenuto, sporse denuncia contro ignoti presso la corte del Paese balcanico, mentre il regista fu portato in tribunale e accusato di incitamento all’odio nazionale dal sindaco di Sarajevo Est, la parte della capitale che fa parte della Repubblica srpska, l’entità serba della Bosnia. Del coinvolgimento di italiani nel fenomeno dei cecchini del weekend riferisce un ex ufficiale dei servizi segreti bosniaci che è una delle fonti principali di “Sarajevo Safari”. Una notizia da verificare e approfondire che getta un’ombra inquietante su una pagina tragica e fin troppo recente: quello di Sarajevo è stato uno dei più lunghi assedi nella storia moderna. 1425 giorni di inferno, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, oltre 11mila caduti secondo le stime. Una scia di morte e distruzione, sullo sfondo della sanguinosa dissoluzione della ex Jugoslavia, a cui contribuirono massicciamente gli sniper serbi appostati sulle alture della città. Tra di loro, stando alle ricostruzioni di Gavazzeni, ci sarebbero stati non solo mercenari, ma stranieri disposti a pagare l’esercito serbo-bosniaco per uccidere civili, e a sborsare ancora più soldi pur di freddare bambini. Abbiamo intervistato Zupanič che ha ricostruito con noi la genesi del documentario. “Osservo che da quando questo procedimento è stato aperto a Milano, in un certo senso, sembra che l’indagine della procura di Sarajevo abbia acquisito un nuovo slancio”, racconta a Sky tg24. Quando iniziò a lavorare sul documentario? Venni a conoscenza per la prima volta di questa storia nel 2019 grazie al mio produttore Franci Zajc che era stato a Sarajevo nel corso dell’assedio. In un secondo momento ne parlai con un altro uomo sloveno che aveva lavorato per un’agenzia americana durante la guerra, monitorando varie attività militari sul territorio della Bosnia: fu testimone di questa caccia all'uomo. Lei stesso all’inizio era incredulo, ma quando si è convinto dell’autenticità di questa storia? Quando ho incontrato questa prima fonte slovena, che ha scelto di restare anonima, gli ho creduto, perché era piuttosto convincente e perché non aveva alcun motivo particolare per mentire. Nel momento in cui Edin Subašič, membro dei servizi segreti bosniaci durante la guerra, mi ha ripetuto e confermato la stessa versione da una prospettiva diversa, in realtà ne sono stato ancora più certo: Subašič, era un ufficiale analista di alto rango, e svolgendo il suo lavoro si era imbattuto in un verbale di un soldato serbo catturato, che raccontava di aver viaggiato con un gruppo di persone provenienti presumibilmente dall'Italia e dalla zona di Milano. Queste persone gli dissero che avevano pagato per poter sparare alla gente in Bosnia, a Sarajevo. C’è poi anche la testimonianza di un ex marine americano che già nel 2007 parlò di questo fenomeno davanti al tribunale dell’Aia. Più tardi, dopo che il film era stato già girato, è venuta fuori questa terza testimonianza. Quando girammo il documentario non ne eravamo a conoscenza. Ora, poiché questa indagine è stata avviata a Milano, ho letto che anche un diplomatico italiano di alto rango che ha lavorato a Sarajevo durante la guerra ha confermato la testimonianza di Subašić secondo cui i servizi segreti italiani erano stati informati. Possiamo dire che ci sono abbastanza elementi che confermano questa storia. Cosa ha pensato quando ha saputo che la Procura di Milano ha avviato delle indagini? Sono in contatto con Ezio Gavazzeni dallo scorso ottobre, quando mi ha scritto e gli ho permesso di vedere il film e l'ho anche messo in contatto con alcune fonti di Sarajevo, o meglio, con tutte quelle che avevo. Mi aveva anticipato che avrebbe voluto fare un esposto, cioè, avviare questa indagine. Mi sembrava un piano troppo ottimistico. Devo dire che in un certo senso sono stato anche sorpreso che sia riuscito a raccogliere abbastanza dati solidi, o meglio abbastanza prove, perché questa indagine fosse avviata. Non sono a conoscenza del contenuto, ma so che ha portato anche la testimonianza di questo John Jordan davanti al Tribunale dell'Aja. Di questo fenomeno si scrisse sui giornali bosniaci e su quelli internazionali . Perché secondo lei ci sono voluti 30 anni per iniziare un vero scavo e una ricerca della verità giudiziaria? Il fatto è che questo fenomeno coinvolse una cerchia molto ristretta di persone che ovviamente non erano interessate a parlarne e che si tirasse fuori questa storia. D'altra parte, la vicenda è così incredibile, così delicata e sfuggente che è difficile farla emergere. E penso che sarà in un certo senso difficile da dimostrare. Posso supporre empiricamente, inoltre, che forse qualcuno che ne era a conoscenza ha preferito voltare le spalle e non occuparsene. Ma non ho una risposta definitiva. Il suo documentario nel 2022 ha fatto piuttosto rumore in Bosnia quando fu presentato in occasione di un festival. Cosa accadde? Nel 2022, credo fosse già allora o all'inizio del 2023, all’epoca in cui uscì il film, la sindaca di Sarajevo, la dottoressa Benjamina Karič, presentò un atto di accusa alla procura per avviare un'indagine contro gli ignoti stranieri di cui parlavano le fonti. La procura aprì questo caso. Naturalmente, non ho informazioni, nessuna idea su come abbiano indagato, a quali risultati siano arrivati, quindi non posso commentare, non ho informazioni su come stiano conducendo le indagini, quindi non posso commentare. Ma è innegabile che la situazione della giustizia in Bosnia ed Erzegovina è molto complicata e, rimangono ancora molte persone impunite. Questa è la mia visione. Osservo, però, che da quando questa procedura è stata aperta a Milano, in un certo senso, sembra che questa indagine della procura di Sarajevo abbia acquisito un nuovo slancio. Contestualmente all'uscita del documentario ricevette delle accuse gravi dai serbo-bosniaci: fu citato in giudizio per diffamazione e incitamento all’odio nazionale, un caso che poi venne chiuso senza esiti. Come affrontò quella mobilitazione contro il suo lavoro? Sono stato sottoposto ad attacchi da parte della Sarajevo orientale, cioè la Sarajevo serba, e ho ricevuto alcune minacce legali e così via. Il nostro obiettivo ovviamente non era incitare alcun tipo di intolleranza o odio nazionale, questa l’accusa che mi è stata mossa, ma semplicemente dare forma ai pezzi di verità a cui eravamo arrivati. E non abbiamo scoperto niente, nel senso che di questa questione si parlò al Tribunale dell'Aja nel 2007, cioè molto prima che iniziassimo a lavorare sul documentario. Qual era il suo obiettivo? Non volevamo convincere nessuno, abbiamo solo ottenuto e messo insieme alcuni pezzi, alcune testimonianze che ci sembravano molto rilevanti, per trasmetterle al pubblico. Questa è la cosa essenziale. Ora, il pubblico sta reagendo a questa storia sotto l'influenza della stampa, e allo stesso tempo anche le autorità giudiziarie stanno reagendo. Ciò che succederà non posso saperlo. Ma penso che attraverso questo episodio circoscritto siamo stati in grado di vedere un altro nuovo aspetto della natura e del carattere dell'uomo. I safari umani sono un prisma che ci mostra l’uomo da un'angolazione inimmaginabile. Cosa racconterebbe questa vicenda sulla nostra società, se fosse confermata? Bisogna premettere che non possiamo generalizzare a partire da quelli che furono probabilmente pochi casi. Ma quello che mi interessa davvero in questa storia è l'uomo e la sua complessità, come vittima - nel documentario ci sono le storie dei genitori che hanno visto la figlia di un anno morire uccisa da un cecchino e di una persona rimasta sulla sedia a rotelle - dall’altro l'uomo come carnefice, come persona violenta, demone. Nella vicenda dei cecchini del week end non c’è alla base una questione di odio, di ideologia, non si tratta nemmeno di interesse militare, ma si tratta di una sorta di insensibilità demoniaca. Penso che il compito dell'arte e del mio lavoro da regista sia quello di esplorare l'uomo in tutte le sue dimensioni, anche quelle decisamente più oscure, come purtroppo ci mostrano i safari di Sarajevo.

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Ludovica Passeri