Bosnia, luci e ombre della vittoria del delfino di Dodik in Republika srpska

All’indomani della chiusura dei seggi, Banja Luka, centro politico dell'entità serba della Bosnia - la Republika Srpska - è ancora tappezzata dai manifesti. Il candidato vincente del partito al potere SNSD, Siniša Karan, non è mai solo nelle immagini che lo ritraggono sui muri della città: alla sua destra, leggermente arretrato come a guardargli le spalle, Milorad Dodik, ex presidente destituito ad agosto, a seguito di una condanna definitiva a un anno di carcere e a sei anni di interdizione politica per non aver rispettato le decisioni dell'Alto rappresentante internazionale, Christian Schmidt, una figura stabilita dagli Accordi di Dayton del ‘95, e aver minato con la sua retorica pro secessione l’integrità della Bosnia-Erzegovina. Nonostante il passo indietro obbligato, l’iconografia della campagna elettorale non lascia spazio alle interpretazioni: Dodik continua a essere il leader, anche se all’orizzonte si stagliano nubi scure. Alle elezioni del 23 novembre l’SNSD si è imposto con un margine strettissimo sul candidato di opposizione Branko Blanuša, e i livelli di astensionismo hanno registrato un record storico. Vittoria o sconfitta? Dodik è accusato di essere il principale responsabile della crisi politica che minaccia il fragile equilibrio dello Stato multietnico. Nel luglio 2023 promulgò due leggi finalizzate ad annullare l’applicazione nel territorio delle sentenze della Corte Costituzionale bosniaca e delle decisioni dell’Alto Rappresentante internazionale. Provvedimenti politici che sono andati di pari passo con dichiarazioni e prese di posizione separatiste e filorusse, ammiccamenti alla Serbia con cui i serbi bosniaci sarebbero “mentalmente integrati” e il negazionismo nei confronti dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante la guerra ai danni dei bosgnacchi, i musulmani di Bosnia. A febbraio, subito dopo la sentenza di condanna, Dodik ha promosso una serie ulteriore di decreti volti a impedire nell’entità serba le attività del Tribunale e della Procura dello Stato centrale, del Consiglio superiore della magistratura e dell’Agenzia statale per la sicurezza e la protezione, la forza di polizia centrale. Un pacchetto di leggi interpretato da molti come un tentativo di “colpo di stato”. Pochi giorni più tardi invitato dalla procura a testimoniare in un’indagine per attacco all’ordine costituzionale, il leader dei serbo-bosniaci non si è presentato, facendo scattare nei propri confronti un mandato d’arresto nazionale, poi revocato. Per mesi Dodik ha escluso di rinunciare alla carica fino ad ottobre, quando ha di fatto riconosciuto la sentenza presentando il candidato Karan, mentre per evitare il carcere ha riscattato la libertà versando una somma equivalente all’incirca a 18mila euro. Alla chiusura dei seggi, l’ex presidente decaduto ha preso per primo parola con un lungo discorso, a cui è seguito l’intervento dell’effettivo vincitore. “Il tentativo di Schmidt e di altri elementi pro-musulmani, bosniaci e anti-serbi qui nella Repubblica Srpska è fallito” ha detto Dodik durante il punto stampa, sottolineando a più riprese che la vittoria del suo partito c’è stata “nonostante le condizioni sfavorevoli”. Ma la narrazione ufficiale è contraddetta dai dati: lo scarto tra SNSD e Blanuša è stato solo di poche migliaia di voti. E le opposizioni hanno contestato brogli, una dinamica che del resto è consolidata soprattutto in alcune municipalità. la Sfiducia nella politica Luka, 36 anni, non è andato a votare: “Non crediamo più nella politica, abbiamo perso le speranze di cambiamento”. La bassa affluenza, intorno al 35%, molto inferiore rispetto alla precedente tornata, ha favorito il candidato dell’SNSD. Per Dodik questo enorme astensionismo è un risultato della contrarietà al voto straordinario e alla sua rimozione dalla carica di presidente, ma dal punto di vista opposto è, al contrario, il sintomo della stanchezza nei confronti dell’SNSD. Dopo questo testa a testa, si accendono le speranze per un potenziale fronte delle opposizioni alle elezioni generali del 2026. È ancora presto, però, per immaginare che questi numeri a ribasso siano un preludio della fine dell’era Dodik, che da vent’anni regge le sorti della Repubblcia srpska. Aleksandar, 23 anni, ritiene che il sistema di potere attuale sia troppo radicato: “Dodik controlla tutto, dai media alla gran parte delle risorse istituzionali. Utilizza la retorica secessionista per restare il capo e compattare l'opinione pubblica contro un nemico interno, lo Stato federale di Bosnia, e esterno, l’Occidente”. Uno studio pubblicato pochi giorni fa dalla London School of Economics si è chiesto se la retorica che combina appelli populisti a richieste secessioniste funzioni davvero nel suscitare sostegno alla causa indipendentista tra l'opinione pubblica. E la risposta è no: l'impostazione populista è funzionale alla strategia politica di Dodik a livello di élite, eppure non è riuscita a incidere sui cittadini comuni. Gli ampi spazi di autonomia accordati dagli Accordi di Dayton all’entità serba non giustificano, del resto, questo tipo di retorica indipendentista. Se è vero che gli appelli populisti di Dodik non hanno presa, la percezione delle difficoltà economiche e dall’altra parte la mancanza di confronto e scambi con croati e bosgnacchi rappresentano i veri fattori di crescita dei sentimenti secessionisti. Trent’anni dopo l’Accordo di Dayton Le elezioni si sono svolte nella settimana in cui è caduto l'anniversario dei già citati Accordi di Dayton. Trent'anni fa si arrivava a un cessate il fuoco e si impostava uno Stato che avrebbe dovuto accontentare tutte le parti, sullo sfondo della dissoluzione della Jugoslavia. Dopo quasi quattro anni di combattimenti, oltre centomila morti, il genocidio di Srebrenica, due milioni di profughi, la soluzione si trovò in uno Stato federale asimmetrico composto da due entità: una Repubblica serba fortemente centralizzata, a maggioranza serba, e una federazione bosniaco-croata decentrata, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Il modello di Dayton ha effettivamente garantito l’assenza di nuovi conflitti ma ha dato nel corso di questi tre decenni prova di ingovernabilità, di paralisi e di una forte dipendenza dagli aiuti esterni. Negli ultimi anni l’offensiva di Dodik al sistema centrale ha fatto crescere le preoccupazioni sul futuro di questo Stato, al punto che alcuni analisti parlando di una “fase senza ritorno”. Non è ancora chiaro se il 9 gennaio, giorno della festa nazionale della Repubblcia srprska, si terrà il referendum paventato da Dodik nei mesi scorsi per far esprimere i serbo bosniaci sul seguente quesito che suona come una domanda retorica: "Accettate le decisioni dello straniero non eletto Christian Schmidt e le sentenze incostituzionali della Corte della Bosnia-Erzegovina pronunciate contro il Presidente della Repubblica Srpska, nonché la decisione della Commissione centrale elettorale di revocare il mandato del Presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik?”. Quello che è certo però è che le tensioni non accennano a diminuire, mentre la scelta degli Stati Uniti, lo storico partner e garante della stabilità della Bosnia, di eliminare le sanzioni contro il leader ci ricorda che Dodik può trovare negli Usa di Trump un effettivo alleato, accanto a Belgrado, Mosca e Budapest.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Bosnia, luci e ombre della vittoria del delfino di Dodik in Republika srpska

Ludovica Passeri