Disgelo inatteso tra Usa e Cina: perché Trump e Xi tornano a parlarsi

Le cose, nella politica estera di Donald Trump, corrono veloci. E così, quello che fino a poche settimane fa, sembrava essere l’arcinemico del presidente Usa, la Cina, oggi sembra se non un partner, comunque un Paese con cui si possono avviare costruttivi e solidi dialoghi diplomatici e commerciali. La telefonata di circa un’ora e mezzo tra Trump e Xi, tenutasi lunedì infatti, si inserisce in una serie di reciproche aperture che, dopo una primavera e un autunno decisamente burrascosi, sembrano aver riportato i due Paesi a dialogare e, persino, a trovarsi in accordo su molti aspetti. L’evento più evidente di questa reciproca de-escalation è stato l’incontro di Busan, tenutosi lo scorso ottobre, dove i due leader si sono incontrati ristabilendo i termini di una tregua commerciale per porre fine a una serie di restrizioni reciproche che rischiavano di paralizzare i commerci e la produzione industriale dei due Paesi. Poi, poche ore fa, la telefonata tra i leader, che segna un accadimento importante, sia per il momento in cui si è verificata, sia per i temi di cui i due leader hanno discusso. Per quel che riguarda il tempismo, la delicatezza del momento è evidente: nelle stesse ore in cui Trump e Xi si parlavano, ad Abu Dhabi era in corso la complicata mediazione per la fine della guerra tra Ucraina e Russia. Una mediazione in cui la Cina non ha nessun ruolo, ma per la quale potrebbe essere determinante, dal momento che, ad oggi, è la principale sponda diplomatica di Vladimir Putin oltre che Xi l’unico leader che potrebbe convincerlo ad arrivare a un accordo. Allo stesso tempo, però, ci sono questioni diplomatiche che riguardano direttamente i due Paesi. In particolare quella di Taiwan di cui, secondo il resoconto cinese dell’incontro , i due leader avrebbero discusso. Pechino non fa mistero di voler annettere l’isola, che considera "parte integrante dell'ordine internazionale del dopoguerra”, mentre gli USA hanno strettissimi legami con Taipei di cui in teoria sono alleati e garanti . Tutto lascia credere che una possibile azione cinese per riprendere il controllo di Taiwan possa avvenire nel 2028, anno nel quale i pianeti per Pechino potrebbero allinearsi: cadranno insieme il centenario della guerra civile, le elezioni presidenziali di Taiwan e quelle americane, che verosimilmente distrarranno il governo statunitense, congelando qualsiasi decisione di politica estera. E in questo quadro non è chiaro quanto e se gli USA, almeno quelli della gestione Trump, potrebbero essere intenzionati a intervenire a supporto di una Taiwan eventualmente attaccata da Pechino. Oltre a questo, poi, non è chiaro se i due abbiano effettivamente discusso anche delle tensioni tra Cina e Giappone ma, di nuovo, il tempismo è interessante. Da alcune settimane, infatti Cina e Giappone sono impegnate in una disputa piuttosto aspra. Questo perché Pechino si è sentita provocata dalle parole della premier giapponese Takaichi Sanae circa il fatto che considererebbe un eventuale attacco cinese a Taiwan come un attacco diretto al Giappone. La frase, piuttosto forte nel fragile contesto in cui è stata pronunciata, è stata resa peggiore dal fatto che, fino al 1945, il Giappone occupava militarmente proprio l’isola di Formosa. Per cui, alle orecchie cinesi, questa affermazione, oltre che ostile e ingerente, è suonata anche vagamente colonialista. La questione, di nuovo, riguarda, anche se collateralmente, gli Stati Uniti che sono grandi alleati del Giappone, ma che su questa faccenda hanno dimostrato una certa freddezza. La premier giapponese, che non cela le sue simpatie trumpiane, poche ore fa ha dichiarato che il Presidente Trump la avrebbe chiamata dopo aver parlato con Xi e le avrebbe detto ‘Siamo amici, chiamami quando vuoi’. Un messaggio di amicizia, certo, ma ben lontano dal supporto che ci si aspetterebbe da un alleato. In questo quadro, in cui a contrapporre Pechino e Washington sono, oltre alle ormai proverbiali questioni commerciali, anche delicate questioni politiche, quel che salta all’occhio è una insolita volontà trumpiana di dialogo. Come se la fase del bastone si fosse conclusa e fosse tempo di iniziare con quella della carota. O come se - come ventila Foreign Policy - gli Stati Uniti stessero facendo i conti con l’idea di aver sostanzialmente perso la loro posizione di salda egemonia, e ora stessero cercando di limitare i danni. “Un parametro che utilizzo per valutare le relazioni tra Stati Uniti e Cina - scrive il ricercatore Robert A. Manning - sono le cinque fasi del dolore, tradizionalmente definite come negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione. [...]. Dopo aver attraversato le prime due, Washington sta attraversando la terza.Il crescente senso di potere di Pechino e il tacito riconoscimento di Trump erano evidenti. La Cina ha dimostrato il suo dominio crescente sugli Stati Uniti, minacciando di bloccare le esportazioni di terre rare e di altri minerali essenziali, infliggendo danni economici e boicottando la soia statunitense. Trump sembrava aver capito che gli Stati Uniti avevano sottovalutato la Cina. Stiamo entrando nella terza fase del dolore: la contrattazione”.

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Luciana Grosso