Perché il Partito Democratico negli Usa è in crisi

Secondo un recente studio condotto dal comitato di azione politica centrista Welcome PAC, il Partito Democratico statunitense avrebbe trascorso l’ultimo decennio scegliendo, di fatto, di perdere le elezioni. È una conclusione ardita e da prendere con le pinze, dato che proviene da un gruppo di interesse finanziato da miliardari di orientamento liberale come Michael Bloomberg e James Murdoch; tuttavia, il rapporto mantiene una sua valenza, essendo il frutto di sei mesi di ricerche su quasi mezzo milione di elettori e dell’analisi di centinaia di elezioni e dati legislativi. L’autore, Simon Bazelon, sostiene che il Partito Democratico si sia spostato troppo a sinistra, sacrificando il successo elettorale in nome di un’ideologia troppo progressista lontana dagli interessi della maggioranza degli americani. Bazelon argomenta che questa deriva ideologica abbia allontanato la base tradizionale dei democratici, composta da lavoratori, giovani e minoranze, e abbia contribuito a diverse sconfitte contro candidati repubblicani impopolari come Donald Trump. Dal 2012 a oggi, i democratici avrebbero modificato radicalmente la loro agenda: le priorità economiche reali come salari, occupazione, costo della vita, sono state sostituite da temi più astratti come clima, diritti civili e identità. Al contempo, il partito si sarebbe spostato a sinistra su quasi tutte le questioni più rilevanti: nel 2013 solo un quarto dei parlamentari democratici sosteneva l’istituzione di un servizio nazionale pubblico, oggi quasi la metà, mentre il sostegno al ban delle armi d’assalto all’interno del partito è passato dal 41% all’88%. Nello stesso lasso di tempo, i sondaggi mostrano un netto aumento della quota di elettori che considerano i democratici “troppo progressisti”, mentre la percezione dei repubblicani come “troppo conservatori” è rimasta stabile . Bazelon ritiene che il declino elettorale dei democratici sia dovuto alla distanza sempre più larga tra i vertici del partito e l’elettore comune. Le élite, generalmente più istruite e benestanti, avrebbero imposto un’agenda che rispecchia le loro priorità culturali e morali, trascurando quelle della popolazione media. La ricerca mostra infatti che i democratici laureati tendono a preoccuparsi di più per questioni come l’ambiente, la democrazia e i diritti civili, mentre si disinteressano di criminalità, immigrazione, inflazione e deficit pubblico, che stanno più a cuore agli elettori indecisi e all’elettorato in generale. Lo studio, tuttavia, è stato condotto prima dell’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York, che ha dimostrato come il messaggio politico di un candidato di sinistra possa includere sia temi che stanno a cuore alla maggioranza della popolazione , sia quelli tipici della “deriva progressista” di cui sopra. La vittoria di Mamdani dimostra però che il rapporto di Welcome PAC ha almeno in parte ragione: se torna a parlare dei problemi che davvero stanno a cuore alla gente il Partito Democratico può vincere, anche se non è detto che per forza debba abbandonare in toto le istanze più progressiste. È anche vero che a New York il 60% dei votanti ha una laurea, dunque replicare la vittoria di Mamdani sul piano nazionale, con una platea molto diversa, sarà difficile. Ecco che allora il suggerimento finale di Bazelon, ovvero moderare le posizioni su immigrazione, sicurezza, energia e diritti civili, abbandonando al contempo il focus sulle battaglie simboliche e concentrando il proprio messaggio su economia, sanità, salari e costo della vita, potrebbe essere una soluzione, e la giusta via di mezzo per lanciare il Partito Democratico verso un successo come quello di Mamdani anche sul panorama nazionale.

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Gianluca De Feo