Cosa significa vivere il Natale con un disturbo alimentare

“Mi sono ammalata di Anoressia nell’inverno del 2019, mentre ero in Erasmus in Germania. Dovevo tornare a Roma per passare la festa con la mia famiglia. Non vedevo l’ora ma stavo anche molto male. Circa dieci giorni prima del mio rientro, mia madre a sorpresa venne a trovarmi: avevano tutti paura che non sarei arrivata al giorno di Natale” racconta Irene Volpe che oggi ha 27 anni e gira il mondo per inseguire il suo sogno: cucinare come chef freelance, un percorso iniziato come una svolta inaspettata, dopo un laurea in Design, e l’esperienza a MasterChef, nel 2021, in cui arrivò tra i finalisti. “Non ho mai nascosto la mia malattia. È stato difficile capire che volevo fare questo lavoro. Quando hai un DCA succede che il cibo sia più un’ossessione che una passione ma grazie al percorso di cura ho capito che volevo davvero farne il mio lavoro. Durante MasterChef, riuscivo a stare a contatto con il cibo perché sapevo che era un’occasione irripetibile. Una parte di me cercava di tenere a bada i pensieri ossessivi, anche se subito dopo le prove iniziavo a calcolare tutto ciò che avevo assaggiato per capire cosa avrei potuto mangiare nel resto della giornata. Dovevo adattarmi a orari rigidi e a piatti che non avevo preparato io, e per me non era semplice.” racconta mentre si trova in Gran Bretagna, a pochi giorni dal rientro a casa per le feste. “Questo 24 dicembre saranno passati sei anni da quando ho iniziato le cure. Direi che solo dopo quattro ho iniziato a riprendere in mano la mia vita quasi completamente”. I biscotti da salvare e il primo Natale con un DCA Da bambina, il Natale per Irena era un periodo felice, associato ai biscotti che la nonna preparava per tutta la famiglia. “Quando lei morì, è stata mia madre a portare avanti la tradizione. Quando mi ha raggiunto in Germania cercavamo di capire da dove iniziare per fare le visite ma il mio pensiero era comunque ‘Chi preparerà i biscotti?’. Nella mia famiglia, il cibo è sempre stato un modo per prendersi cura dell’altro. Abbiamo deciso di prepararli in un fornelletto minuscolo che avevo in camera e li abbiamo portati a casa in una valigia enorme: i biscotti andavano portati in salvo. ” ricorda sorridendo, anche se quel Natale non fu come i precedenti, annebbiato da confusione, disagio e dalla sensazione di non avere il controllo su ciò che accadeva dentro e fuori di sé. “Fu brutto, stavo molto male, avevo perso molto peso. In famiglia, tutti lo sapevano ma nessuno ha detto nulla. Solo un parente, alla fine del pasto, mi chiese: ‘Ma come è successo?’. Scoppiai a piangere, non esiste risposta a una domanda così.” Il frigo pieno, vedere gli altri mangiare ampie quantità di cibo era destabilizzante per Irene. “Il Natale era pieno di cose che attivavano sensazioni negative: gli orari insoliti, lo stare seduti a tavola per così tanto tempo, la successione infinita di portate. È qualcosa di profondamente culturale: mangiare tanto, mangiare sempre, e poi ricominciare il giorno dopo come se nulla fosse. È già pressante per chi non ha un rapporto difficile con il cibo; figuriamoci per chi convive con un DCA”. E poi arrivava il senso di colpa. “Il periodo delle feste mi piace. Faccio il compleanno il 9 novembre, dopo quella data per me inizia il Natale. Da piccola mi era stato passato il messaggio che mangiare a Natale fosse come onorare una tradizione. Il ricordo della me bambina che mangiava in tranquillità mi faceva chiedere perché ora non lo facessi più. Avevo aspettato tutto l’anno quel momento e me lo ero vissuto malissimo: era già finito e mi sentivo vuota, con un forte senso di colpa per non essermelo goduto come avrei voluto.” Sei anni dopo, il Natale di Irene è fatto di sensazioni diverse. “Grazie alla terapia, che porto ancora avanti, e alle persone care che mi sono sempre state vicino, lo vivo come un periodo di transito, senza aspettative, un tempo di riposo e di ascolto dei miei bisogni, da vivere senza la pressione sociale del dovere, adattando tradizioni e abitudini a ciò che fa stare bene me e le persone a cui voglio dedicare tempo.” Andare oltre il cibo: consigli pratici per stare insieme a Natale Le feste hanno un peso emotivo particolare per chi ha un DCA, quando paura, preoccupazione, rabbia, disagio, stress si possono fare molto intensi. “Non è solo per via del cibo” sottolinea la dottoressa Elisabetta Abate, dietista e membro dell’équipe del centro per DCA “Comestai”. “L’idea di condividere un momento di grande vulnerabilità come il pasto può essere molto stressante.” A ciò si aggiungono i commenti indiscreti su dieta, corpo, attività fisica per “compensare” il pasto, spesso fatti a tavola con leggerezza, ma che possono mettere a disagio e attivare un vortice di pensieri negativi. Durante il pasto è fondamentale che la persona con un DCA senta di poter contare su qualcuno. “Avere accanto una persona di fiducia può fare davvero la differenza. Se a tavola arrivano commenti inadeguati, può essere utile provare a spostare il focus della conversazione su altro. Usare parole accoglienti e parlare di argomenti che non ruotino attorno al cibo aiuta a ridurre la tensione” afferma la dottoressa Abate, invitando anche a cercare di agire anche con anticipo. “È utile, se la persona se la sente, discutere il menù, offrirsi di prepararlo insieme, chiederle cosa la mette più a proprio agio nella gestione del cibo: se preferisce servirsi il cibo da sola o ricevere il piatto già porzionato a tavola, non c’è una regola unica.” Un Natale più sereno per tutti è un Natale che sa guardare oltre il cibo. “Organizzare giochi da fare insieme, pensare a un tema, realizzare dei segnaposto, scegliere la musica di sottofondo per distrarsi sono strategie che spesso suggeriamo ai pazienti. E se qualcosa non va, è legittimo sentire il bisogno di allontanarsi un momento dalla tavola.” conclude Abate.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Cosa significa vivere il Natale con un disturbo alimentare

Federica De Lillis