Perché le sanzioni di Trump sul petrolio russo sono diverse dalle altre

Nelle ultime ore si è consumata l’ennesima giravolta nel complicato rapporto tra Donald Trump e Vladimir Putin. I nemici-amici della politica internazionale stanno continuando nel loro tira e molla che li fa passare nel giro di poche ore da rapporti preferenziali e cordiali e da incontri nei quali si chiamano per nome ad altri di grande tensione e reciproca minaccia. Così, dopo che giovedì, nel corso di una cordialissima telefonata avvenuta poche ore prima dell’incontro tra Trump e Zelensky, Vladimir Putin aveva sostanzialmente convinto il presidente USA a non rifornire l’Ucraina di missili Tomahawk e a organizzare un incontro a Budapest, oggi, appena una settimana dopo, siamo passati di nuovo alla fase di reciproca ostilità. Non solo l’incontro è stato rinviato sine die, data l’impossibilità dei rispettivi ministri degli esteri - in veste di pontieri - di trovare un terreno di dialogo comune, ma pare che Donald Trump abbia anche sbuffato “Parlare con Vladimir è inutile”. Visto che parlare con Putin è inutile, il presidente americano, da tempo smanioso di chiudere più conflitti armati possibili, ha deciso di passare alle maniere forti e avviare, nei confronti della Russia, sanzioni degne di nota. La notizia potrebbe non sembrare clamorosa, dal momento che l’economia del Paese è sotto sanzioni più o meno pesanti dal 2014 e che, dal 2022 a oggi, sia l’amministrazione Biden che l’UE si sono profusi in sanzioni sempre più dure e sempre più stringenti. Ma qualcosa rende il pacchetto avviato da Trump diverso dagli altri. In primo luogo si tratta della prima volta che il presidente in carica sanziona la Russia. Sino a qui, infatti, non lo aveva ancora fatto, e le ultime sanzioni comminate a Mosca risalivano ai tempi di Joe Biden. Poi perché le sanzioni di oggi, ma che entreranno effettivamente in vigore il prossimo 21 novembre, osano fare quello che la precedente amministrazione aveva evitato: sanzionare le due principali aziende petrolifere russe. “A gennaio - scrive Financial Times - l'amministrazione di Joe Biden ha imposto sanzioni alle grandi compagnie petrolifere russe Gazprom Neft e Surgutneftegas, ma aveva rimandato quelle a Rosneft e Lukoil per timore che ciò potesse far aumentare i prezzi globali dell'energia”. Il timore di fare aumentare i prezzi dell’energia sembra non aver scalfito l’azione di Donald Trump che, anzi, ha deciso di chiudere anche le possibili scappatoie del commercio di petrolio russo. Una cosa che, per lungo tempo, sia gli USA che l’UE avevano cercato di rallentare, ma non di fermare del tutto, convinti che il contraccolpo di una scomparsa totale dei combustibili russi dai mercati avrebbe creato una ripercussione economicamente difficile da sostenere. Così, nonostante il regime di sanzioni durissimo, parti residuali di gas russo hanno continuato ad arrivare in Europa e soprattutto a raggiungere i due mercati più floridi del mondo, quelli di India e Cina, Paesi nei quali, oggi, il petrolio russo rappresenta circa il 20% delle forniture. Questo sistema di commercio, noto ma tutto sommato tollerato, per evitare rincari energetici, potrebbe ora finire. La ragione la spiega Bloomberg: “Le sanzioni statunitensi contro i giganti energetici russi stanno provocando un'onda d'urto nel cuore dell'industria petrolifera cinese, dove sia le raffinerie statali che quelle private subiscono una pressione crescente per mantenere le forniture evitando al contempo sanzioni. Il rischio per la Cina e l'India, i principali clienti della Russia, risiede nei loro rapporti con entità sanzionate, che possono esporre le aziende a pesanti sanzioni secondarie. Tra queste, l'esclusione dai sistemi bancari occidentali e dall'accesso al dollaro, o l'esclusione da parte di produttori, commercianti, spedizionieri e assicuratori occidentali che costituiscono la spina dorsale dei mercati globali delle materie prime”. Questo è il terzo punto che rende le sanzioni imposte in queste ore diverse da quelle precedenti, il loro effetto di rimbalzo su Cina e India, ossia sui mercati che sino ad ora hanno tenuto bordone a Mosca. E quest’ultimo punto ci restituisce la cifra della politica di Donald Trump in questi ultimi mesi. Infatti, benché il presidente dipinga se stesso come un grande mediatore e benché, quando era ancora un imprenditore, abbia scritto un libro che si intitolava The Art of the Deal, in realtà in questi mesi Trump ha mostrato di avere ben poca propensione al negoziato. Almeno per come è inteso in genere: Trump non cerca un punto intermedio tra due posizioni opposte. Piuttosto tende a cercare di soffocare una delle due, fino alla sua capitolazione, e alla sua disponibilità ad accettare una mediazione che altrimenti avrebbe rifiutato. Con Gaza e il piano in 20 punti è sostanzialmente andata così. Chissà che non funzioni anche con la Russia. E se poi, mentre si colpisce l’economia russa, si riesce a danneggiare anche quella cinese e indiana, o, meglio ancora, a costringere Cina e India a comprare combustibili americani, tanto di guadagnato.

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Luciana Grosso