L'Afghanistan post sisma, tra apartheid di genere e l'inverno in tenda

È trascorso più di un mese da quando un violento terremoto ha distrutto la parte orientale dell’Afghanistan, portando morte e distruzione. Le vittime del sisma stimate sono oltre 2 mila, e i bambini rappresentano più della metà del bilancio totale. A pagare il prezzo più alto le donne afghane, lasciate sole sotto le macerie perché gli uomini hanno il divieto di toccarle. Anche per intervenire attraverso il lavoro di medici donne, a metà settembre Pangea Onlus è partita per l’Afghanistan, dove le case distrutte hanno lasciato spazio alle tende, moltissime famiglie hanno perso dei loro componenti e le temperature – parliamo di zone rurali tra i 2500 e i 4300 metri di altitudine – si sono già abbassate e ci si prepara alle difficoltà di un inverno senza casa. “La nostra missione si è sviluppata su tre obiettivi: i progetti che abbiamo a Kabul, quelli che abbiamo a Jowzjan e poi l’area critica distrutta dal terremoto nel distretto di Darai Nur e di Konar”, spiega a SkyTG24 Insider da Kabul il presidente di Pangea Luca Lo Presti dopo un mese di permanenza nelle zone terremotate. “Il nostro intervento si è concentrato su 10 villaggi terremotati. Quando siamo arrivati a settembre abbiamo trovato delle tende installate dalle Nazioni Unite, poi abbandonate. La popolazione afghana è stata assistita per 15 giorni esatti, poi lasciata sola in condizioni drammatiche”. In questo momento le persone sopravvissute hanno bisogno di cure mediche, acqua e cibo, e l’intervento di Pangea si è occupato della costruzione di campi per l’assistenza sanitaria di primo intervento: “Si tratta di campi rigorosamente divisi tra uomini e donne”, spiega Lo Presti. “Ricordiamo che qualche settimana fa le donne qui non venivano nemmeno curate. E non si trattava di ‘rumors’, come avevano ipotizzato alcune agenzie umanitarie: purtroppo l’esclusione delle donne dalle cure per il divieto di toccarle è una realtà”. L’apartheid di genere L'apartheid di genere che vige in Afghanistan dal ritorno dei talebani vieta alle bambine e alle ragazze anche l’istruzione. “Nelle zone rurali la concezione del genere è totalmente mancante, e non è solo un problema dei talebani che hanno ripreso il potere, ma una questione culturale annosa che non è mai stata davvero affrontata”, spiega. E la difficoltà culturale di non poter toccare le donne per soccorrerle e medicarle “sembra un limite invalicabile”. Quando Pangea ha allestito i campi medici, il capovillaggio ha imposto la costruzione di un sentiero che dividesse l’area maschile da quella femminile. “Noi non ci siamo potuti opporre”, spiega Lo Presti, perché per assistere le persone è necessario essere accettati dalla comunità. Qualche piccolo segnale di apertura però c’è stato: “Dopo alcuni giorni il capovillaggio ha portato sua moglie al campo”, rompendo così la regola della separazione tra i generi, e molti altri uomini hanno iniziato ad accompagnare le proprie a curarsi. Abbiamo capito che la sanità è una chiave di dialogo con la comunità”, racconta il presidente. “Offrendo un servizio sanitario facciamo capire loro che la vicinanza di genere è importante”. E la speranza è che si possa tracciare una strada in questo senso: “Abbiamo bisogno di aprire dei dialoghi: non possiamo più permettere che le donne muoiano perché donne”. Per curare le donne sfollate – tantissime di loro sono in gravidanza - Pangea ha costruito una sala parto dove una ginecologa e un’ostetrica offrono loro assistenza. “Non è stato affatto semplice allestire una sala parto sotto una tenda, con il fango a terra: ma ci siamo riusciti”. L’inverno che incombe: nelle tende sottozero Un’ulteriore difficoltà è quella delle temperature rigide delle zone montuose interessate dal terremoto, molto complicate da sostenere all’interno di tende. L’inverno in Afghanistan è quasi alle porte: nelle zone del sisma di notte la temperatura scende già sotto zero. E per prepararsi a mesi freddi e difficili Pangea si sta attrezzando con i fondi a disposizione : “Abbiamo acquistato qualche migliaio di stufe e altrettante coperte pesanti, ma ce ne servono altre”, racconta il presidente dall’Afghanistan: “Qui fa già freddo, l’inverno sta arrivando e non abbiamo né la disponibilità economica né il tempo a disposizione per costruire delle case per gli sfollati. È una corsa contro il tempo. Sulle montagne c’è già la neve”. E la terra non ha mai smesso di tremare: le case sono totalmente inagibili, e le scosse di terremoto continuano, nonostante il governo non ne dia più notizia: “Sono sussultorie, fanno paura: sembrano colpi di cannone. Anche quel poco che è rimasto in piedi rischia di crollare”. Ma per le persone sopravvissute al sisma non ci sono opzioni diverse dall’inverno in tenda: “Il problema è che chi è rimasto lì non ha un’alternativa, chi poteva ha già lasciato l’area. Parecchi si sono spostati nella città più vicina, Jalalabad. Non possiamo abbandonare chi resta”. Nelle tende, racconta Lo Presti, ci sono circa 200-300 famiglie per villaggio, quindi un paio di migliaia di persone. Il blackout di 48 ore e l'istruzione in tilt Il primo giorno di ottobre l’Afghanistan ha anche subito un blackout totale di Internet e telefonia mobile presumibilmente imposto dai talebani, che hanno isolato il Paese dal resto del mondo per 48 ore. Il blocco ha paralizzato anche banche, commercio e rimesse dall'estero, aggravando la già drammatica crisi umanitaria. “Le ipotesi sull’origine del blackout sono state molteplici, ma non abbiamo una risposta certa”, dice il presidente di Pangea. “La nostra più forte preoccupazione era che i talebani volessero bloccare la connessione per impedire che le ragazze potessero studiare online, cosa che sta accadendo” perché è l’unico modo per avere un minimo di accesso all’istruzione, l’unica finestra virtuale sul mondo . Nelle città c’è stata molta preoccupazione perché tutte le transazioni di vendita sono state bloccate, così come le banche e gli ospedali fermi. Senza accesso alla Rete tutto è andato in tilt per 48 ore. Pangea in quelle ore si trovava nelle aree terremotate che non hanno subito conseguenze perché, spiega il presidente, “in quelle zone il cellulare non prende mai, quindi non ce ne siamo nemmeno resi conto” a differenza dei colleghi a Kabul che hanno raccontato le difficoltà della paralisi digitale e la paura dell’inizio di un blocco permanente che avrebbe interrotto la possibilità alle studentesse di studiare online. E la speranza che cada il divieto dell’istruzione femminile “può partire solo da Kabul”, racconta, dove c’è un clima più rilassato e le ragazze possono ancora andare in giro e mangiare al ristorante. Nelle zone rurali terremotate invece “non vanno a scuola né femmine né maschi”. E nelle tende ci sono donne sfollate che hanno perso tutti i componenti della famiglia: marito e figli. Per loro, che sono insieme ai parenti uomini, l’unica speranza è riposta nella possibilità di farle lavorare. “Nei prossimi mesi, fondi permettendo, vogliamo attivare attività e progetti legati ad agricoltura e pastorizia per far sì che queste donne abbiano un minimo di futuro potendo sviluppare attorno a loro attività economiche che possano portare profitto al nucleo familiare senza diventare un peso”. Mentre a Kabul Pangea ha attivato dal 2002 un progetto di microcredito per le donne. "La svolta recente è che alcune di loro che ne fanno parte ci hanno chiesto di attivare delle cooperative per aprire dei negozi e il Ministero ha dato il via libera. Questa è una grande rivoluzione, anche di mentalità. L’idea che le donne di Kabul possano uscire dalle loro case dove fanno il pane e cuciono i vestiti per aggregarsi e lavorare in pubblico è un segnale di speranza”.

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Giulia Mengolini