In Giappone i tatuaggi sono ancora un tabù?

In Giappone, i tatuaggi sono sempre stati stigmatizzati. Ancora oggi, nelle onsen o nei bagni pubblici non è raro trovare cartelli che vietano l’accesso a chi possiede tatuaggi. Eppure questa pratica ha una storia antichissima: risale al periodo Jōmon , per poi essere bandita durante l’epoca Meiji ed essere stata a lungo associata alla criminalità organizzata, la yakuza. Qualcosa, però, sta cambiando. Dal 2020 i tatuatori giapponesi non sono più obbligati a possedere una licenza medica per esercitare la loro professione, grazie a una storica sentenza della Corte Suprema. Un altro segnale di cambiamento è arrivato con le Olimpiadi di Tokyo del 2021, quando il Paese si è trovato di fronte a moltissimi atleti internazionali tatuati. Per capire meglio la storia e l’evoluzione di questo fenomeno, abbiamo parlato con Susanna Marino, docente di Istituzioni di Cultura giapponese all'Università degli Studi di Milano-Bicocca e Presidente del Centro di Cultura Italia-Asia. Tattoo, hirezumi e horimono “La cosa peculiare dei tatuaggi giapponesi, racconta Marino, è che, attraverso la storia, dal periodo Jōmon fino ai giorni nostri, hanno toccato un po’ tutte le tipologie di tatuaggio che possiamo incontrare sparse nel mondo: tatuaggi con valore apotropaico, religioso, di protezione talismanica, oppure tatuaggi come appartenenza identitaria di un clan, o ancora punitivi. In Giappone ci sono stati tutti. Questo è testimoniato anche dal fatto che esistono vari vocaboli per indicare diverse tipologie di tatuaggio: mentre noi usiamo la parola “tatuaggio”, derivata dall’inglese tattoo, in giapponese tattoo indica solo i tatuaggi moderni e piccoli, che non hanno nulla a che vedere con quelli autoctoni. I termini più antichi sono altri”. “Tra i vocaboli più antichi troviamo hirezumi : shi 刺す significa “infilzare, trafiggere”, ao 青 “blu”. Il termine rende l’idea dell’inchiostro blu che penetra nella pelle ed è un termine usato soprattutto nel periodo Edo . È uno dei vocaboli più antichi e indicava soprattutto la tecnica. Sempre in epoca Edo, parte di questi tatuaggi assumono un’altra connotazione: da segni piccoli su alcune parti del corpo si trasformano in grandi decorazioni che si estendono progressivamente, fino a coprire interamente il corpo. Diventano ciò che conosciamo oggi come tatuaggio giapponese”. "Il termine horimono , prosegue Marino, horu 彫る “incidere, scavare” e mono 物 “cosa, oggetto inciso nella pelle”, si trova a metà strada tra il tatuaggio e la scarificazione. Questo termine si utilizzava anche per gli incisori delle matrici in legno delle stampe ukiyo-e. Non a caso, la storia delle stampe e quella dei tatuaggi si sovrappongono, proprio nel periodo Edo”. Le origini: da stigma a identità “Sulle testimonianze più antiche esistono solo ipotesi: si parte sempre dal periodo Jōmon e dai dogū, statuette fittili con decorazioni che ricordano tatuaggi, come in alcune popolazioni siberiane. Nel periodo Kofun , invece, sono state trovate statue di argilla, le haniwa con decorazioni facciali: non sappiamo se fossero pitture o incisioni, ma suggeriscono tatuaggi a scopo protettivo o di appartenenza sociale. Poi le fonti si interrompono per poi riapparire nel periodo Kamakura , quando compaiono testimonianze scritte sui tatuaggi punitivi inflitti ai criminali. Si trattava di marchi d’infamia incisi sul volto o sul corpo, destinati a rimanere a vita. “Nel periodo Edo, prosegue Marino, i tatuaggi punitivi venivano fatti ai criminali e variavano a seconda della pena e della regione di appartenenza. Più reati, più segni incisi sul corpo. In una società rigidamente divisa in classi, questi marchi condannavano i reietti a portare per sempre la propria colpa sulla pelle. Col tempo, però, da reietti divennero gradualmente una sorta di “classe a sé”. Per coprire i marchi punitivi, li trasformano in policromi elaborati, che finirono per estendersi su gran parte del corpo. Da stigma a marchio identitario: così nacque il tatuaggio giapponese moderno, sempre più complesso e carico di simbolismo. Questo avvenne soprattutto dal 1700 in poi, con l’allentarsi delle regole più rigide. Allo stesso tempo, nelle stampe ukiyo-e cominciarono ad apparire figure di eroi tatuati, spesso ispirati a leggende cinesi di eroi ribelli. Non è chiaro se siano state prima le stampe a ispirare i tatuaggi o viceversa. Sicuramente, da questa contaminazione nacque l’irezumi come lo intendiamo oggi, il tatuaggio giapponese”. Il bando Meiji e il fascino degli occidentali “Con la fine del periodo Edo e l’apertura al mondo, i giapponesi vollero mostrare un volto moderno e tecnologico agli occidentali. Per questo, in quel periodo, i tatuaggi vennero vietati e gli studi degli horishi , chiusi. Ma i maestri continuarono a lavorare di nascosto e paradossalmente, proprio allora, molti occidentali restarono affascinati da quest’arte. Alla fine dell’Ottocento furono anche nobili e membri di famiglie reali a farsi tatuare da maestri giapponesi”. Dai divieti alle Olimpiadi di Tokyo 2021 "Da allora, i tatuaggi in Giappone sono rimasti un tabù, anche se mai proibiti ufficialmente. Ancora oggi nelle onsen o nei bagni pubblici troviamo cartelli che vietano l’ingresso sia a chi ha irezumi tradizionali sia a chi porta tattoo moderni. Per rispetto, sono stati persino creati cerotti speciali per coprire i tatuaggi piccoli. La situazione ha iniziato a cambiare solo negli ultimi decenni, con la prospettiva di ospitare eventi internazionali come le Olimpiadi. Durante Tokyo 2021 si è chiuso un occhio e molti atleti stranieri hanno gareggiato mostrando i propri tatuaggi. Ma ancora oggi studenti stranieri mi raccontano che trovano difficoltà a entrare in piscine, palestre o bagni pubblici. La mentalità sta cambiando, ma lentamente".

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Francesca Torcasio