Molto più di una parata militare: tutti i messaggi lanciati da Vučić

Belgrado si è preparata per giorni. Il frastuono delle esercitazioni militari è stato ricorrente nella settimana che ha preceduto la grande parata militare. Un rumore sinistro e inquietante per una città che poco più di 25 anni fa veniva bombardata dalla Nato come reazione all'aggressione e alla pulizia etnica ai danni degli albanesi kosovari, sullo sfondo della dissoluzione della Jugoslavia e delle guerre che ne derivarono. La capitale serba porta ancora le ferite di quel “maledetto 1999” e i belgradesi hanno ricordi nitidi. “Siamo stati costretti a superare il trauma sonoro, altrimenti avrei dovuto chiudere il negozio e passare qualche giorno in campagna", ironizza una piccola commerciante del centro storico, con un modo tutto serbo di sdrammatizzare. Da tempo non si teneva una sfilata delle forze armate di queste proporzioni. Il 16 ottobre 2014, alla presenza del presidente russo Vladimir Putin, carri armati a bulldozer sfilarono per celebrare il 70° anniversario dell'inizio delle operazioni che avrebbero portato alla liberazione di Belgrado durante la Seconda guerra mondiale. Quella di ieri, invece, ha avuto luogo sulla scia delle celebrazioni della Festa dell'Unità e della bandiera del 15 settembre, una data entrata recentemente nel calendario civile per volontà del presidente Vučić e che molti considerano un'occasione vuota, di facciata. I numeri del 20 settembre 2025 - diecimila soldati, 2500 armamenti, 600 veicoli, 70 imbarcazioni fluviali - sono vertiginosi. Del resto, l’obiettivo programmatico era quello di costruire la più grande parata della storia di Serbia. Ma non c'è paragone che stia in piedi, nessun confronto possibile con il passato, perché è il contesto che fa la differenza. Il Paese sta attraversando la più forte crisi sociale e politica dall'inizio degli anni Duemila e la fine del regime del presidente nazionalista Slobodan Milošević, con proteste anticorruzione continue che vanno avanti da quasi un anno, mentre sullo sfondo l'intera area ex-Yu è in ebollizione. No, stavolta non c'era Putin, che, sì, mantiene buoni rapporti con Vučić ma che nel frattempo - non un dettaglio - è ricercato per crimini di guerra. Sul palco allestito sulla spianata del Palazzo di Serbia a Nuova Belgrado, una schiera di rappresentanti politici internazionali. Tra gli ospiti stranieri, il presidente degli Emirati arabi uniti, lo sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, una delegazione del Bahrein, il ministro della difesa ungherese, militari di Francia, Cina, Usa e Cipro. La parata è stata l'occasione per presentare 19 nuovi sistemi d'arma. Una dimostrazione di forza, nei confronti delle minacce esterne, perché la pace non si ottiene con ”la debolezza” ma con la ”forza”, la “stabilità” e la deterrenza, ha spiegato il presidente. E allo stesso tempo uno show - si legga rassicurazione - a uso e consumo degli alleati esistenti e potenziali, in un momento in cui la politica estera, notoriamente multiforme del Paese, diviso tra Est e Ovest, si sta diversificando con nuovi variegati accordi militari. Da quello da 2,7 miliardi stretto un anno fa con la Francia per l’acquisto da parte serba di 12 caccia Rafale al recente contratto di 1,6 miliardi di dollari con l'israeliana Elbit Systems che ha venduto a Belgrado i suoi missili. Ma non serve guardare così lontano. La parata si era appena conclusa quando il presidente ha rilasciato dichiarazioni difficilmente fraintendibili, a margine della seduta congiunta dei governi di Serbia e Republika Srpska, l'entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, il cui presidente Milorad Dodik, sodale di Vučić e dichiarato decaduto dai tribunali bosniaci, minaccia la secessione da Sarajevo. “La Repubblica srpska può sempre contare sulla madre Serbia" ha detto l'omologo serbo soffiando sul fuoco di una situazione già rovente nei Balcani occidentali, a poche settimane dal referendum indetto da Dodik, previsto per il 25 ottobre, che potrebbe portare le tensioni a uno stadio superiore. C'è stato anche spazio per lanciare quelle che sono più che delle semplici frecciatine alla Croazia. ”Quando là si fanno delle parate, si parla di 'sfilate meravigliose'. Quando invece sono i serbi a organizzare una parata allora si tratta di una 'minaccia alla regione'" ha scandito, con un chiaro riferimento alle celebrazioni dei 30 anni dall'Operazione Tempesta, svoltasi a luglio, con cui i croati hanno ricordato la riconquista dei territori della Krajina, un’area tra la Dalmazia e la Bosnia passata in mano ai serbi croati nel 1991. Il botta e risposta tra Belgrado e Zagabria è particolarmente teso e carico di significati, visti gli ultimi sviluppi dello scacchiere balcanico. Lo scorso marzo la Croazia aveva firmato un analogo accordo militare con Albania e Kosovo, provocando le proteste della Serbia, che non riconosce l'indipendenza del Kosovo e lo considera ancora parte integrante del territorio serbo. Solo due settimane fa la Croazia ha alzato la posta siglando con la Slovenia un accordo di collaborazione in campo militare e della difesa, destinato a rafforzare ulteriormente i rapporti bilaterali fra i due Paesi vicini della ex Jugoslavia e membri dell’Ue, a differenza di Bosnia, Serbia, Macedonia e Montenegro. Le analisi geopolitiche sulla parata fanno sorridere la stampa di opposizione e gli studenti in lotta, i veri leader della protesta. Dal loro punto di vista, l’obiettivo dell’evento era molto più casalingo: intimidire, spaventare, scoraggiare chi è in piazza dal primo novembre scorso, quando il crollo della pensilina della stazione di Novi Sad, la seconda città del Paese, ha provocato la morte di 16 persone e fatto esplodere un dissenso covato in oltre un decennio di potere targato Vučić e Sns, il suo partito-Stato. Il simbolismo che lega parate militari ad autoritarismo non è passato inosservato, soprattutto perché il presidente è reduce da due eventi simili: la Giornata della Vittoria a cui ha partecipato a Mosca il 9 maggio scorso e la grande parata militare di Pechino di inizio settembre ”Voleva comunicarci che l’esercito è dalla sua parte, ma non pensiamo sia così”, ci racconta un ragazzo a poche ore dall’evento. Non stupisce dunque che parallelamente alla parata si sia svolta una manifestazione alternativa per iniziativa di studenti e professori per celebrare le libere forze armate e per contrastare la visione dell’esercito del presidente, accusata di “essere politica, personalistica, privata”, come spiegano gli studenti attraverso i canali social. Sta di fatto che ai manifestanti non è stato concesso di avvicinarsi, nonostante abbiano più volte chiarito di non voler turbare lo svolgimento dell’evento. Il 20 settembre come gli ultimi 11 mesi: è questa la quotidianità di un Paese polarizzato, in cui non ci sono margini di dialogo tra le due parti in causa. Tutta l’attenzione è rivolta ora al primo novembre. Dopo l’avvertimento arrivato dai servizi russi alle autorità serbe sulla possibilità che una nuova EuroMaidan serba si stia preparando in occasione del primo anniversario del crollo di Novi Sad con annessi colpo di Stato e instaurazione di un governo ubbidiente a Bruxelles, le testate vicine al presidente si sono scatenate nel rilanciare titoli dai toni allarmistici. “Zapad želi Majdan u Beogradu ” campeggia, il 16 settembre, in prima pagina del giornale Informer, il megafono delle autorità. Del resto, è la stessa tesi sostenuta da Vučić che parla da mesi di un tentativo di rivoluzione colorata in atto, orchestrata da forze esterne. Per i detrattori del presidente tutta propaganda e non solo. Per chi manifesta, chiedendo a gran voce elezioni anticipate, queste teorie sono l’insulto peggiore: la rivendicazione di un’autonomia da attori esterni è uno dei capisaldi del movimento protestatario, nonostante l’adesione ideale ai valori incarnati - almeno in linea teorica - dall’Unione europea. La domanda sorge spontanea e se la fanno in molti: questa parata è stata una dimostrazione della forza dello Stato o uno specchio della sua paura nei confronti dei propri cittadini?

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Ludovica Passeri