Ancora isolati, gli aiuti impossibili nell'Afghanistan post sisma

Sono trascorsi dieci giorni dal violento terremoto che ha colpito duramente la regione orientale dell'Afghanistan. E, ancora oggi, alcuni villaggi montuosi restano isolati e inaccessibili, rendendo estremamente complicate le operazioni di soccorso. Il sisma di magnitudo 6 del 31 agosto ha fatto tremare la terra nella provincia di Kunar, vicino alla città di Jalalabad, e in quella di Nangahar. I danni sono enormi: morti, feriti, sfollati, case distrutte, interi villaggi rasi al suolo, infrastrutture e servizi danneggiati. Secondo l'Autorità nazionale per la gestione dei disastri del Paese, le vittime sono oltre 2.200 e i feriti 3.600. Le abitazioni sgretolate dal sisma, più di 6.000. Le persone colpite, oltre 84mila. “Il numero delle vittime potrebbe aumentare, forse anche sensibilmente, considerando che alcune aree del Paese non sono ancora state raggiunte”, ha spiegato Susanna Fioretti, cofondatrice e vicepresidente della ong Nove Caring Humans, da anni impegnata in Afghanistan per i diritti delle donne, dei bambini e delle persone con disabilità. Alcune delle aree colpite dal terremoto, che si trovano in zone montuose del Paese, sono infatti “raggiungibili solo a piedi o in elicottero”. E questo complica notevolmente l'intervento degli operatori umanitari. “Alcuni villaggi sono stati completamente distrutti: tra i residenti c'è chi è stato sfollato in località vicine e chi invece è rimasto intrappolato senza poter ricevere aiuto”, ha aggiunto Fioretti. A essere doppiamente e duramente colpite dal dramma del sisma sono, ancora una volta, le donne afghane. “A causa delle restrizioni dei talebani, non possono esporsi e non possono stare fuori casa. Ma ora che il terremoto ha distrutto le loro abitazioni e i loro vestiti, vivere da sfollate è un grande problema. Mostrare il volto e ritrovarsi fuori casa, fuori dal proprio rifugio, per le donne significa essere esposte a tutto ciò a cui gli uomini non vogliono che siano esposte”, rimarca ancora la vicepresidente di Nove Caring Humans. Ed emerge anche il problema sanitario: le restrizioni dei talebani impediscono ai soccorritori maschi di toccare e visitare le donne afghane vittime del terremoto. “Il personale femminile medico è molto ridotto perché le università da anni sono chiuse e non si formano nuovi medici donne: questo significa che non ci sono abbastanza sanitarie, infermiere, operatrici che possano soccorrere in prima persona le pazienti”, sottolinea Fioretti. Qual è la situazione attuale nell'est dell'Afghanistan a seguito del violento terremoto? La situazione attuale nelle province dell'Est è molto difficile, perché sono province caratterizzate da strade impervie: buona parte del territorio è montuosa e quindi difficile da raggiungere. Quello che noi sappiamo, grazie a un team che opera sul campo e che ci manda informazioni continuamente, è che le vittime, che il primo giorno erano state stimate a 600, sono salite già a oltre 2.000. Molti villaggi purtroppo non sono ancora stati raggiunti dai soccorritori: sono accessibili soltanto a piedi o in elicottero, e questo rende complicate le operazioni di intervento. Temiamo quindi che il numero dei morti possa aumentare, forse anche sensibilmente. Quali sono le principali difficoltà che organizzazioni umanitarie e volontari stanno riscontrando nelle operazioni di soccorso? La principale difficoltà è quella di raggiungere queste zone e strade di montagna. Si tratta di località per le quali è necessario fare grandi tratti a piedi. Ora, a causa delle scosse, le strade franano e sono interrotte. Gli aiuti stanno arrivando, sono arrivate squadre dalla Turchia, dal Bangladesh e da altri Paesi. Ma purtroppo è difficile raggiungere tutti i villaggi in tempi utili, essendo il territorio così grande e i villaggi disseminati in aree complesse. Temiamo che alcune persone siano rimaste intrappolate nelle macerie, senza la possibilità di ricevere aiuto. In che modo la vostra ong, Nove Caring Humans, sta operando in questo momento sul territorio? Attualmente stiamo raccogliendo informazioni sia dalle autorità locali, sia dai villaggi in cui noi operiamo. Alcuni di questi sono isolati perché purtroppo in alcune zone non c'è neppure una linea telefonica. Abbiamo lanciato una campagna di raccolta fondi e stiamo valutando le esigenze principali della popolazione. Le forniture di acqua si sono interrotte, il bestiame è morto nel crollo degli edifici. Tra le tante emergenze, c'è anche quella legata alla sepoltura delle vittime: può sembrare una questione non prioritaria, ma per la popolazione afghana che vive in queste aree, ed è molto tradizionalista, garantire una sepoltura adeguata alle vittime, con i propri riti e usanze, rappresenta una priorità. Nelle condizioni attuali, però, questo non è possibile. E ciò costituisce per loro un dolore aggiuntivo. In quali condizioni vive in questo momento la popolazione afghana? Alcuni villaggi sono stati completamente distrutti. Alcune persone sono sfollate in aree vicine, altre sono ancora in attesa d'aiuto o intrappolate. In alcune zone sono stati istituiti dei campi spontanei per ospitare gli sfollati. Ma il problema principale riguarda le donne... Perché? Per tradizioni e cultura locale, le donne afghane non possono essere esposte. Ora che le loro abitazioni sono state danneggiate o distrutte, stare fuori casa senza avere accesso ai propri effetti personali è un problema aggiuntivo alla tragedia del terremoto. In un Paese che vieta l'educazione femminile è vietata e non garantisce alle donne i diritti elementari, mostrare il volto e ritrovarsi fuori casa, fuori dal proprio rifugio, per le donne significa essere esposte a tutto ciò a cui gli uomini non vogliono che siano esposte. E in questi villaggi, molto conservatori, tutto questo è esacerbato. Poi emerge anche il problema sanitario. Il personale femminile medico, che unicamente può occuparsi della salute delle donne, è molto ridotto perché le università da anni sono chiuse e non si formano nuovi medici, infermiere, operatrici che possano toccare e visitare le pazienti. Le donne sono sempre le più colpite. Oltre alla fornitura di acqua, quali sono i danni più gravi registrati a causa del terremoto? Uno degli ultimi riporti riferisce di oltre 6.500 case distrutte e 84.000 persone colpite, in vari modi. Date le difficoltà del terreno, bisognerà fare un assessment per valutare le esigenze della popolazione. Attualmente stiamo assistendo a un momento di grande confusione, in cui ancora si cerca di recuperare e salvare le persone dalle macerie. I principali problemi strutturali riguardano strade impervie distrutte, carenza di acqua e accesso ai villaggi, difficoltà nel trasporto di cibo e tende alla popolazione colpita, insufficienza di elicotteri che permettano di raggiungere le zone più inaccessibili. Anche gli ospedali afghani sono al collasso... Sì. I soccorritori stanno trasportando un grande numero di feriti negli ospedali che sono sovraccarichi: già dal primo giorno mancavano le sacche di sangue per le trasfusioni. In generale, si tratta di ospedali che, in condizioni normali, hanno già gravi carenze strutturali: pochi letti, poco personale. Poi c'è il problema degli animali, del bestiame. Uno dei nostri progetti più recenti aveva distribuito a centinaia di famiglie una mucca o due capre per migliorare l'alimentazione, perché c'è moltissima malnutrizione in Afghanistan. Nel Paese, oltre 20 milioni di persone vivono in condizioni di povertà. Con questa iniziativa, noi di Nove Caring Humans avevamo distribuito animali per migliorare la nutrizione dei bambini dando modo alle famiglie di vendere il latte, il formaggio, lo yogurt. Attualmente si registrano oltre 6.000-8.000 animali morti. Si tratta di una questione non prioritaria, è vero, ma costituisce un ulteriore problema per le famiglie, oltre che un problema igienico. Lei è la fondatrice di Nove Caring Humans. Qual è il suo obiettivo? La nostra organizzazione si chiama Nove Caring Humans, è nata nel 2012 e lavora prevalentemente in Afghanistan. Oltre al 90% delle nostre attività si svolgono lì e in Italia al momento. Ci occupiamo in particolare delle esigenze di donne, bambini e persone con disabilità. Quando ho fondato Nove Caring Humans insieme a una mia collega, avevamo entramb lavorato per grandi e anche buone organizzazioni, ho lavorato per la Croce Rossa Italiana, per il Comitato Internazionale di Croce Rossa, per l'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo. Le macchine grandi sono potenti, apportano molti fondi, molto aiuto. Le macchine piccole come la nostra organizzazione invece hanno pochi fondi, poca capacità di manovra, ma hanno la possibilità di essere flessibili e adattabili: questo è il vantaggio che noi riscontriamo anche adesso. Quali sono i progetti più importanti di Nove Caring Humans per le donne in Afghanistan? Prima del ritorno dei talebani, avevamo due o tre progetti molto innovativi, tra cui l'istituzione dell'unica scuola guida femminile in tutto Afghanistan e dell'unico servizio di trasporto al femminile, con autiste professioniste formate, e di un centro di formazione professionale per sole donne. Tutto questo è stato bloccato dall'arrivo dei talebani, che hanno sequestrato il nostro centro. Ancora stiamo discutendo per riavere indietro il nostro equipaggiamento. Oggi le patenti di guida non vengono più rilasciate alle afghane, che possono rinnovarle solo se le possiedono già, ma non possono ottenerle da zero. Trattando con le autorità talebane siamo riusciti però a ottenere il permesso di iniziare nuovi progetti. Uno di questi si chiama Dignity e, finanziato dal Trust per la Donna, garantisce un reddito fisso mensile a 60 famiglie, per una media di 360 persone. Un'altra iniziativa è Bread for Women, che sostiene le panetterie femminili migliorandone gli standard di igiene e aiutandole a svilupparsi. Alcuni ci accusano di “trattare con i talebani”. Ma l'alternativa per noi sarebbe quella di interrompere la nostra attività in Afghanistan, perché lo Stato talebano è uno Stato di polizia in cui quasi tutto è alla luce del sole: loro sanno quello che facciamo. Se vogliamo aiutare la popolazione, dobbiamo essere registrati presso il loro governo, far vedere ciò che facciamo e, quindi, dialogare con loro. Questa è la strada che noi abbiamo scelto per non abbandonare l'Afghanistan e, soprattutto, le donne.

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Silvia Donnini