Perché il governo di Israele ignora le proteste di piazza?

“Avremmo potuto chiudere questa guerra un anno fa e riportare a casa gli ostaggi. Ma il governo ha scelto di sacrificare i civili per salvare il suo governo”. Sono state queste le parole con cui Einav Zangauker, madre di Matan Zangauker, ha aperto una delle tante manifestazioni che hanno riempito le strade di Tel Aviv nelle ultime ore. A sfilare, nelle piazze e per le strade, spesso con le mani legate da un nastro giallo, o persino con al collo dei cartoncini su cui sono scritti i nomi dei bambini gazawi uccisi, sono da settimane migliaia di persone. Persone ebree israeliane che si oppongono con tutte le loro forze a una guerra e a un governo di cui, ritengono, da tempo si sono smarrite le ragioni di essere. Questa guerra era iniziata per riportare a casa gli ostaggi e per debellare Hamas. Oggi Hamas è debole, ma ancora in piedi, e più di 50 ostaggi sono ancora nelle mani dei miliziani. Una realtà feroce che cozza con un’altra realtà, evidentissima: solo 8 ostaggi israeliani, sui 250 rapiti il 7 ottobre, sono stati effettivamente liberati da azioni mirate dell’esercito di Israele. Gli altri, circa 120, che sono tornati a casa vivi, sono stati liberati da Hamas durante le settimane di tregua dello scorso febbraio. Un altro centinaio di ostaggi è morto, o per le privazioni della prigionia o nel corso di azioni di guerra. Quindi, dinnanzi a questo quadro, i parenti degli ostaggi, sia di quelli ancora prigionieri a Gaza, sia di quelli morti o già tornati a casa, chiedono a gran voce che l’azione del gabinetto di unità nazionale guidato da Netanyahu si occupi di perseguire l’obiettivo per cui nell’ottobre del 2023 è nato: riportare a casa gli ostaggi. Cosa che non solo, in quasi due anni di guerra, non è riuscito a fare, ma che a leggere le sue ultime decisioni sembra aver di fatto espunto dall’elenco dei suoi compiti. Come se la guerra, oggi, non avesse più niente a che fare con le vite degli ostaggi, ma con altre questioni, più grandi e più di sistema. Le ultime decisioni prese dal gabinetto di guerra di Netanyahu, infatti, non vanno in nessun modo nella direzione di una soluzione della guerra, semmai, al contrario, in quella di una sua recrudescenza. Nel dettaglio, il governo israeliano non ha ancora risposto alla proposta di cessate il fuoco avanzata da Hamas che prevede la restituzione di almeno metà dei prigionieri. E, per sovrapprezzo, ha deciso di dare il via all’occupazione della fetta di Striscia di Gaza che ancora non controlla e in cui sorge Gaza City, una operazione cui, oltre a una parte dell’opinione pubblica, si sono opposti persino l’esercito e l’intelligence, ritenendo che l’operazione rischierebbe di trasformarsi in un cul-de-sac per i soldati e in una definitiva condanna a morte per gli ostaggi. È quindi questo il paradosso dei cortei che hanno invaso Tel Aviv oggi come nelle ultime settimane: le persone che più hanno ragione di detestare Hamas, che sfilano per chiedere un accordo e una tregua. Le persone cui Hamas ha strappato via un pezzo di vita che, con sgomento, urlano per chiedere la fine di una guerra che li ha traditi, che aveva promesso loro di riportare a casa i loro cari e che, però, poi, in due anni, si è come distratta, occupatasi di altre faccende. Eppure, nonostante il clangore delle proteste, nonostante le strade bloccate, le auto incendiate, nonostante i disordini e persino nonostante il calo del tasso di popolarità di Netanyahu, non si scorgono segnali di nessuna marcia indietro da parte dell’esecutivo. La proposta di tregua con Hamas, cui Tel Aviv non ha ancora risposto, sarà probabilmente respinta perché, è opinione dell’esecutivo, che non sia più tempo di accordi parziali, ma della restituzione completa e definitiva degli ostaggi, oltre che del disarmo completo di Hamas. L’idea di occupare Gaza City, invece, nonostante le proteste, è già stata approvata ed è entrata nel vivo, unita alla decisione di avviare una serie di insediamenti in Cisgiordania che la taglieranno in due e, di fatto, avranno una collocazione tale da smembrare per sempre la sola ipotesi di uno stato palestinese. Come se il senso della guerra, a questo punto, non fosse più né quello di riportare a casa gli ostaggi, né quello di smembrare Hamas, né quello di trovare un sistema di convivenza con i territori palestinesi. Ma quello di ridisegnare l’equilibrio dell’intera area, colpendo sia i nemici storici di Iran e Libano, sia annichilendo qualunque forma di opposizione palestinese. E per questo, forse, le voci dei manifestanti di oggi stanno ricevendo solo indifferenza e minimizzazione da parte dell’esecutivo. Perché nelle piazze si protesta contro una guerra che è già finita. Che non esiste più. Il governo di Israele è già impegnato a combatterne un’altra.

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Luciana Grosso