Il ritorno della violenza in Colombia

I mezzi di soccorso che corrono sulle strade devastate dall’esplosione, le sirene che squarciano il silenzio mentre i superstiti guardano attoniti il loro mondo che si è incendiato, all’improvviso. In Colombia è uno scenario che sembrava relegato al passato: quando i cartelli regnavano incontrastati, e i loro leader, da Pablo Escobar in poi, dettavano legge nelle strade e in Parlamento, con parabole fulminanti di successo e violenza, fino a essere venerati come eroi dell’immaginario collettivo raccontati in serie tv e film che hanno conquistato il mondo. Un brusco risveglio Anni bui, appunto. Negli ultimi tempi il Paese si era trasformato in una meta turistica, e veniva ricordato più per essere la patria di Gabo Marquez che non dei più famosi narcos degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Se però i vari leader dei cartelli sono finiti in prigione o morti, è anche vero che la droga è continuata a scorrere nelle vene più profonde dell’economia colombiana. Come una linfa velenosa impossibile da eradicare. La relativa tregua degli ultimi anni si è interrotta bruscamente negli ultimi giorni, con un uno-due devastante: ultima in ordine di tempo, un’autobomba che a Cali, sulla costa orientale colombiana, ha squarciato l’area attorno alla Base aerea Marco Fidel Suárez. Questo poche ore dopo che un drone aveva abbattuto un elicottero della polizia impegnato nelle operazioni antidroga. Un segnale, se possibile, ancora più grave del fatto in sé, che il presidente Gustavo Petro ha deciso di affrontare senza esitazioni, chiedendo di dichiarare i cartelli “organizzazioni terroristiche da perseguire in ogni parte del mondo”. Un paese nuovo, nuovi cartelli Perché un dato è certo: la Colombia non è più quella di 30 o 40 anni fa, ma anche i cartelli sono diversi: non più quelli di Cali, Medellin o Norte del Valle. Ora si chiamano BACRIM , e sono il Clan del Golfo, il gruppo narco-paramilitare più potente della Colombia, Los Rastrojos, i successori del cartello del Norte del Valle, Los Puntilleros, che collaborano soprattutto con le formazioni ribelli eredi delle FARC, cioè Iván Mordisco e Segunda Marquetalia. Insomma, da una leadership chiara, come quella di Escobar, capo incontrastato, si è passati a una sorta di polverizzazione. E questo perché sono intervenuti due fatti cruciali. La perdita del primato colombiano nel traffico di droga a favore del Messico, e la pacificazione con le formazioni ribelli. Senza un capo Ancora oggi la Colombia rappresenta il principale produttore di coca al mondo. I piani per l’eradicazione delle piantagioni hanno portato a risultati contraddittori, ma si può dire– al di là delle ideologie – che se l’obiettivo era distruggerle, è fallito. La produzione ha subito flessioni sotto la presidenza di Alvaro Uribe, riprese sotto i suoi successori, ma il paese rappresenta a tutt’oggi la punta del “triangolo d’oro della coca” insieme a Perù e Bolivia, e non ci sono significativi segnali di inversione di rotta. D’altronde la geografia non è a favore della Colombia per il commercio con il più grande mercato al mondo, gli Stati Uniti. Da questa difficoltà logistica ne ha tratto benefico invece il Messico, trasformato nella cosiddetta “catapulta” dove convergono tutte le produzioni di narcotici dirette verso il Nord America. Così che il potere principale si è spostato nelle mani dei trafficanti messicani. Questo non significa che i cartelli abbiano perso potere, ma sono più divisi rispetto a un tempo, e manca una guida centrale, quello che un tempo era “el Jefe”, il capo. La pace imperfetta Il quadro si fa ancora più complesso se si osserva l’altro lato del problema colombiano: l’instabilità provocata dalle formazioni ribelli, come le FARC e le ELN. Nate come gruppi clandestini di ispirazione marxista-leninista che si proponevano di difendere le fasce più deboli della popolazione, si sono progressivamente trasformate in organizzazioni criminali. In realtà i ribelli colombiani consideravano, almeno all’inizio, il traffico di droga un “male necessario” per il proprio sostentamento. Poi, col passare degli anni, è divenuto il loro “core business”. Tanto più dopo il 2016, quando le FARC hanno siglato un accordo di pace, si sono trasformate in un partito politico, e l’ELN ha firmato un fragile cessate-il-fuoco. Le fazioni dissidenti hanno quindi stretto un’alleanza più funzionale con i narcos, rendendo quindi lo scenario ancora più caotico. La guerra alla droga Viene da chiedersi perché, allora, questa nuova ondata di violenza. Perché proprio adesso, e non, per esempio, negli anni più duri della lotta alla droga, quando Bogotà era fedele alleata nella strategia americana della “war on drugs” e la DEA, l’agenzia contro il traffico di stupefacenti, guidava la politica colombiana. In effetti sotto la presidenza di Alvaro Uribe, esponente conservatore dal 2002 al 2010, allineato al “Plan Colombia” di Washington, si è assistito a una flessione della produzione di coca. Anche se l’altro lato della medaglia – l’uso delle fumigazioni per eradicare la coltivazioni – ha portato a danni devastanti all’ambiente. E però, seppure tra dati contraddittori, la violenza è progressivamente diminuita. La bilancia tra danni e benefici non è mai stata chiara. Tanto che negli ultimi 15 anni si è assistito a una continua oscillazione tra i due estremi: da un lato la militarizzazione e la repressione; dall’altro l’approccio “integrato”, che privilegia l’incentivazione dei campesinos verso nuove colture. Le risposte – appunto - non sono sempre state coerenti. La virata di Petro L’attuale presidente, Gustavo Petro, progressista, ha sposato un approccio decisamente più morbido rispetto ai predecessori: in netto contrasto con gli Stati Uniti, ha sospeso le fumigazioni, ha promosso la riconversione delle coltivazioni, si è detto favorevole alla legalizzazione delle droghe a livello mondiale. Si è spinto a definire la coca “dannosa quanto il whisky”. Ed è proprio sotto la sua presidenza, decisamente più permissiva, che si è assistito a questa nuova escalation. I numeri, nella loro brutalità, non sembrano a favore della linea tollerante. Coltivazioni in crescita, nuovo caos nelle strade. Però – come dicono alcuni – è anche vero che i numeri, torturandoli, danno qualsiasi risposta. Sono le ideologie a fornire le lenti con cui interpretarli. E quindi i difensori di Petro ribattono che, se da un lato l’aumento delle coltivazioni era prevedibile, la risposta violenta dei cartelli dimostra come la strategia adottata sia quella più efficace. E il dibattito è destinato a durare.

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Gianluca Ales