Cosa c'è di vero sulle trattative per la tregua a Gaza

Una tregua. Non una pace. Non un accordo. Non una soluzione a due Stati. No. Solo un tregua di qualche giorno. O al massimo qualche settimana. Questo è quello di cui, in queste ore, si sta discutendo tra Hamas e Israele. A quel che risulta Hamas sarebbe disponibile. Israele, invece, ci sta pensando e ha preso tempo fino a venerdì per rispondere. I termini di un accordo per una tregua, simile a quella che ha dato qualche settimana di respiro ai civili gazawi lo scorso febbraio, secondo quanto riferito da Reuters, prevederebbero un cessate il fuoco di 60 giorni e il rilascio di metà degli ostaggi ancora detenuti a Gaza . Nel dettaglio l’offerta di Hamas prevederebbe il rilascio di 10 ostaggi vivi e di 18 corpi. In cambio, le milizie palestinesi chiedono il rilascio di almeno 200 detenuti palestinesi incarcerati in Israele oltre a quello di almeno parte delle donne e dei minori prigionieri delle carceri israeliane e il ritiro parziale delle forze israeliane dalla parte di Striscia attualmente occupata e l’aumento di ingressi di camion di aiuti umanitari per i civili. Al momento non sappiamo come e se Israele intenderà accettare i termini della tregua, ma sul tavolo restano almeno due incognite, che potrebbero far propendere Tel Aviv per il no. La prima riguarda la sorte del totale degli ostaggi, siano o meno questi ancora in vita. Israele pretende la loro restituzione completa e non parziale prima di avviare qualsiasi ipotesi di cessazione della guerra e ha ribadito più volte di non avere intenzione di accettare nessun piano che preveda la loro restituzione parziale. La seconda incognita riguarda il piano di occupazione di Gaza City, rispetto al quale il governo Netanyahu non sembra intenzionato ad arretrare, nonostante le proteste di piazza e la sostanziale contrarietà dell’esercito. Il piano è stato già approvato e, anche se solo in una primissima fase organizzativa, avviato. Non sappiamo se un accordo possa essere sufficiente a congelare i piani di occupazione da parte di Israele per cui, la ripresa di Gaza, a venti anni dall’ordine di ritiro da parte dell’allora premier Ariel Sharon, avrebbe un alto significato simbolico. Non solo, ma a rendere verosimile l’ipotesi che Israele respinga l’accordo per la tregua c’è anche una questione politica: in questo momento la sorte politica di Netanyahu è legata a filo doppio a quella dell’estrema destra del partito Otzma Yehudit , guidato dal ministro per la Sicurezza Nazionale Ben Gvir, che è da sempre contrario a ogni forma di accordo non solo con Hamas ma con qualunque entità rappresenti i palestinesi e che ha già dichiarato di ritenere irricevibile qualunque forma di dialogo. D’altra parte, però, se queste sono le ragioni per cui Israele potrebbe respingere l’accordo, sul tavolo ce ne sono anche altre, che potrebbero fare propendere Netanyahu verso il sì. Il primo è che il piano per la tregua proposto da Hamas ricalca in tutto e per tutto quello proposto dall’inviato statunitense Steve Witkoff, e quindi respingerlo significherebbe respingere un piano americano, cosa che in questo momento Netanyahu potrebbe non essere nella posizione di fare: Donald Trump è un alleato chiave del governo di Israele e, da tempo, non fa mistero di ambire al Nobel per la pace, cosa che lo sta rendendo alacre pacificatore delle situazioni anche più complesse e ingarbugliate. Dire no al piano, per Netanyahu, potrebbe equivalere a dire no a Trump, cosa che potrebbe irritare moltissimo il Presidente USA portandolo, nell’ipotesi più ardita, a rivedere il suo appoggio a Israele. L’altra questione che potrebbe far propendere Israele verso il sì è l’urgenza di riportare a casa gli ostaggi: sono passati ormai quasi due anni dal 7 ottobre e dal rapimento di circa 250 cittadini israeliani. E due anni di guerra non hanno consentito di compiere nessun concreto passo avanti in merito alla loro liberazione. Anzi: i poco più di 100 ostaggi che sono tornati a casa vivi sono stati liberati solo nell’ambito della tregua di febbraio e non nel corso di raid o operazioni israeliane. Per questo, in queste ultime settimane, per Netanyahu si è fatto sempre più difficile convincere l’opinione pubblica israeliana del fatto che la linea dura tenuta nei confronti di Hamas abbia qualcosa a che fare con la liberazione degli ostaggi. Anzi: i fatti, se li si guarda, dicono il contrario. La guerra non ha liberato nessuno; la tregua ha liberato più di 100 persone. Benché i sondaggi di opinione siano ancora favorevoli a Netanyahu e al suo partito, il Likud, il premier israeliano sa di avere a che fare con un’opposizione esasperata e con una popolazione stremata da due anni di guerra. Una pressione difficile da reggere se sommata a quella degli Usa. Per questo si cerca un punto di caduta che potrebbe arrivare nella proposta egiziana di aggiungere, alle condizioni già sul tavolo, anche la smilitarizzazione di Hamas, le cui armi potrebbero essere consegnate all’Egitto che, a quel punto, si impegnerebbe a custodirle. Un’ipotesi quest’ultima particolarmente indigesta a Hamas, ma che potrebbe sbloccare la situazione e, soprattutto, gli aiuti ai civili.

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Luciana Grosso