Dalla persecuzione all'esilio: la storia della giornalista afghana Zahra Joya

Quando Zahra Joya ha lasciato l'Afghanistan nel 2021 aveva poco meno di trent'anni. Era una giornalista affermata, la fondatrice della prima agenzia di stampa femminista del Paese, un'importante attivista per i diritti delle donne. Era il 15 agosto 2021, esattamente quattro anni fa, quando il ritorno dei talebani a Kabul faceva piombare nuovamente l'Afghanistan nell'oblio di un regime oppressivo. Da quella data, tutto è cambiato di nuovo. La repressione dei talebani nei confronti delle donne e la persecuzione contro i reporter afghani – e in particolare le reporter – ha costretto Zahra a fuggire altrove, ad abbandonare il suo lavoro, la sua famiglia, i suoi amici, la sua casa. Ha preso un biglietto di sola andata per il Regno Unito, perché l'unico modo per vivere da giornalista libera era scappare, in esilio. “In Afghanistan il giornalismo e la libertà di parola sono morti. Essere un reporter indipendente è considerato un crimine dai talebani, ed essere addirittura una reporter donna è un doppio crimine”, ha spiegato a Sky tg24 Insider Zahra Joya. “Sapevo di essere un bersaglio perché, durante la mia carriera, avevo più volte protestato contro i talebani ed era ovvio che mi avrebbero presa di mira”, ha aggiunto la giornalista raccontando la fuga dal suo Paese. Nata in una famiglia hazara, uno dei gruppi etnici più grandi dell'Afghanistan, in un villaggio nella provincia di Bamiyan, Zahra Joya ha conosciuto la repressione talebana a soli quattro anni, nel 1996. All'epoca, durante il primo regime che impediva a bambine e ragazze di andare a scuola, scelse di cambiare la propria identità fingendo di essere un maschio. Si fece chiamare Mohammed. “È stato grazie a questo escamotage che ho potuto frequentare le lezioni”, ha detto. Oggi vive in esilio a Londra, dove continua a portare avanti la sua battaglia per i diritti delle donne afghane, dando loro voce attraverso Rukhshana Media, l'agenzia di stampa femminista che lei stessa definisce “uno specchio, per osservare la nostra storia e riflettere sul nostro destino”. “La maggior parte delle storie che pubblichiamo riguardano la tristezza, il fallimento e la perdita dei nostri diritti”, ha rimarcato. Che cosa significa essere una reporter in un Paese che non garantisce la libertà di stampa? Purtroppo fare la giornalista in un Paese in cui la dittatura è a un livello elevato e la censura è molto importante per il governo attuale è molto difficile. Soprattutto per una donna. Ed è proprio per questo motivo che vivo fuori dall'Afghanistan e lavoro in esilio. Da bambina fingeva di essere un maschio per sfuggire alle restrizioni imposte dai talebani, che impedivano alle ragazze di andare a scuola. Indossava abiti maschili e si faceva chiamare Mohammed per poter frequentare le lezioni. Ha voglia di raccontare quel periodo della sua vita? Certo. All'epoca ero piccola, ma non avevo altra scelta se non cambiare la mia identità e il mio aspetto per essere libera. È stato grazie a questo “escamotage” che ho potuto frequentare le lezioni. Durante il primo regime talebano, alle bambine non era permesso andare a scuola: cosa che, almeno, è cambiata durante il secondo regime talebano. Per me, ovviamente, è stata una sfida, un'esperienza difficile. Ma il risultato è stato positivo, perché sono riuscita almeno a ricevere un'istruzione. Ed è anche grazie a questo che oggi posso lavorare come giornalista e aiutare le altre donne in Afghanistan. A causa dei suoi reportage e della lunga persecuzione dei talebani contro gli Hazara, è diventata un bersaglio. Che cosa è successo in quel periodo? Nel 2021 la situazione era molto caotica. Quando i talebani hanno preso il potere, il loro leader ha annunciato che ci sarebbe stata una sorta di amnistia per tutti coloro che lavoravano con i Paesi stranieri, per i giornalisti. Ma non era vero. Dopo pochi giorni, i soldati talebani hanno iniziato ad arrestare diverse persone, prendendo di mira i giornalisti. Sentivo che ero in pericolo e ho capito che dovevo andarmene. Ho preso quindi la decisione di lasciare il mio Paese e la mia casa. È stato un periodo molto spaventoso. Quando ha capito che non era più al sicuro in Afghanistan? Il momento esatto è stato quando ho visto un soldato talebano nella mia strada di casa. Poco dopo ho ricevuto messaggi da alcuni colleghi di Kabul che mi consigliavano di nascondermi, perché i talebani stavano cercando i giornalisti. Sapevo di essere un bersaglio perché, durante la mia carriera, avevo più volte protestato contro i talebani ed era ovvio che fossi tra quelli che svolgevano attività prettamente contro i talebani. Come descriverebbe lo stato del giornalismo in Afghanistan? Oggi in Afghanistan il giornalismo indipendente e la libertà di parola sono morti. Essere un giornalista indipendente è considerato un crimine dai talebani. Essere una giornalista donna, un doppio crimine. Devi obbedire alle leggi restrittive dei talebani, rispettare la loro politica, e non ti è permesso lavorare come reporter indipendente. Ma, come sappiamo, il nostro obiettivo è quello di far conoscere la verità alla gente. Lei è la fondatrice della prima agenzia di stampa femminista in Afghanistan, Rukhshana Media. Qual è il suo obiettivo? Rukhshana Media è semplicemente una piattaforma per dare voce alle donne e alle ragazze in Afghanistan. Ma è anche uno specchio, per noi donne, per osservare la nostra storia e riflettere sul nostro destino. Su Rukhshana Media pubblichiamo diversi tipi di storie, la maggior parte delle quali riguardano la tristezza, il fallimento e la perdita dei nostri diritti. Ma a volte diamo spazio anche a storie positive dedicate al successo di tutte quelle donne che vivono fuori dall'Afghanistan. Lei ha scelto il nome “Rukhshana Media” per ricordare una ragazza afghana di 19 anni lapidata a morte dai talebani... Esatto, Rukhshana è stata lapidata a morte dai talebani nel 2015 nella provincia di Ghor. Quando ho creato l'agenzia indipendente nel novembre 2020, un anno prima dei talebani, ho pensato che il nome Rukhshana fosse per me, per noi un simbolo commemorativo da non dimenticare. Rukhshana scelse di non sposare un uomo che non amava: voleva vivere con qualcuno che amasse davvero, voleva essere una donna indipendente. Ma i talebani l'hanno arrestata e lapidata a morte davanti a tutti. Uno dei suoi ultimi reportage racconta della condizione in cui vivono attualmente le famiglie afghane, ponendo l'attenzione sulla pressione che gli uomini sono costretti a esercitare sulle donne del proprio nucleo familiare affinché rispettino le leggi repressive dei talebani... Purtroppo questo è uno dei “trucchi” che i talebani utilizzano per controllare le donne. Il ministero della propaganda talebano ha dichiarato - emanando una legge - che se le donne non obbediscono alle regole, gli uomini della stessa famiglia devono essere puniti. Noi di Rukhshana Media abbiamo lavorato con alcuni colleghi e abbiamo pubblicato questo reportage in collaborazione con The Guardian. Abbiamo scoperto che gli uomini di famiglia sono sottoposti a pressioni. Molti di loro hanno riferito di sentirsi come una “forza non retribuita al servizio dei talebani” perché sono, in qualche modo, obbligati a far rispettare le leggi alle donne del loro nucleo familiare. Abbiamo intervistato alcuni uomini che vivono in province molto pacifiche, come quella di Bamiyan, nella comunità Hazara, dove le donne non hanno alcun problema a vivere in società, a essere visibili. Nella comunità Hazara, ad esempio, donne e uomini hanno diritti quasi uguali sotto molti aspetti. Ma anche lì, gli uomini ci hanno raccontato che si sentono sotto pressione. Cosa significa per una donna vivere oggi in Afghanistan? Le donne in Afghanistan sono vittime di disumanizzazione. I talebani attaccano il genere femminile, l'identità femminile, la dignità femminile. E per questo le donne pagano un prezzo molto alto. Io chiedo sempre ai decisori politici e ai leader mondiali di lasciare che i talebani scompaiano, di lasciare che questo gruppo venga messo da parte. Non dimentichiamo che sono nati due volte e, per due volte, hanno avuto l'opportunità di governare l'Afghanistan in modo molto distruttivo. Tutto questo è orribile. È come se tutti i decisori politici del mondo fossero colpevoli di ciò che i talebani stanno facendo alle donne: non c'è nessuno che chiede loro di fermare questo processo di disumanizzazione delle donne. Nessuno. Quale futuro immagina per le donne in Afghanistan? Le donne afghane sono forti. E lo sono anche adesso, in un momento in cui, a causa delle leggi repressive, la loro attività e la loro visibilità sono considerate un crimine. Oggi se vai in un parco o esprimi la tua opinione, commetti un reato. Quindi, sì, le donne afghane sono forti perché resistono, lottano, protestano, sfidano i talebani. Spero che potremo ricevere maggiore solidarietà internazionale per superare questo periodo buio. Non so se le donne afghane torneranno mai a vivere nel modo in cui vivevano prima, perché ormai, da più di quattro anni, sono escluse da ogni forma di istruzione. Ma ricominceremo ancora e ancora. So che è difficile, ma spero che potremo finalmente ricostruire il nostro futuro. Lei è stata nominata “Donna dell'anno” dalla rivista Time ed è stata inserita nella lista delle 100 donne più influenti secondo la BBC. Cosa significano per lei questi riconoscimenti? Ringrazio sempre le persone che riconoscono il mio lavoro e sono sempre grata a coloro che si interessano a ciò che facciamo con Rukhshana Media, ai risultati che otteniamo e al significato che ha per noi lavorare nel giornalismo. Essere stata scelta dal Time come "Donna dell'anno" in un momento in cui la mia identità di donna nel mio Paese era sotto attacco, e lo è tutt'ora, non mi sembra però un grande risultato. Soprattutto in un momento in cui nel mondo reale non hai nulla, non hai diritti. Non riesco a essere né felice, né triste. È una sensazione difficile da descrivere onestamente. Come descriverebbe la sua vita oggi? Oggi vivo a Londra. Qui ho avuto una seconda possibilità: ho il diritto di lavorare come giornalista, di far sentire la mia voce, ma soprattutto ho la libertà, che è qualcosa che non avevo nel mio Paese d'origine. Ho la libertà di andare dove voglio, di stare dove voglio, di fare quello che voglio. Essere una giornalista in esilio è difficile, ma la mia vita nel Regno Unito è molto bella. Ci sono momenti in cui sente la mancanza di casa? Molte volte, in realtà. Tutti i miei pensieri, i miei ricordi, i giorni in cui ero felice in Afghanistan mi mancano. Il legame con la mia terra è forte. E ancora oggi, almeno il 90% del mio tempo lo dedico all'Afghanistan e alla popolazione afghana. Ma mi mancheranno sempre i miei amici, i miei ricordi, la mia casa, tutto. In particolare durante alcune festività, come Eid e Nowruz , sento molto la distanza con i miei fratelli e i miei genitori. Quale messaggio vorrebbe inviare alle donne afghane? Come giornalista, spesso ricevo messaggi e telefonate dall'Afghanistan in cui donne e ragazze mi dicono: “Tu sei la nostra voce”. Sono davvero grata alle persone che ripongono fiducia in me e in Rukhshana Media. Vorrei solo dire a tutte loro: continuate a essere forti, ottimiste, continuate a lottare, supereremo questa oscurità. L'Afghanistan è sempre stato un Paese patriarcale, una società dominata dagli uomini. Ma dobbiamo restare unite, dobbiamo lavorare insieme per la libertà.

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Silvia Donnini