A Gaza non muoiono solo i giornalisti ma anche l'informazione libera

C’ è un numero da tenere presente quando si parla di uccisioni di giornalisti all’interno della Striscia di Gaza nel corso di questa guerra. Il numero è 18. E no, 18 non è il numero dei giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023 a oggi. Il numero 18 è il numero di giornalisti rimasti uccisi in Ucraina tra il 25 febbraio 2022 e oggi, in tre anni e mezzo di guerra. Il numero di giornalisti rimasti uccisi a Gaza, in meno di due anni, è invece almeno dieci volte tanto: un numero compreso tra 181 e 240, a seconda delle fonti. Gli ultimi cinque di questa lunga lista sono stati uccisi, volontariamente e nel corso di un’azione mirata, nel pomeriggio di domenica 10 agosto. Erano Anas Al Sharif, giornalista 28enne di Al Jazeera che da tempo l’esercito israeliano accusava di essere un militante di Hamas, e i reporter che erano con lui nei pressi dell’ospedale di Al-Shifa, a Gaza: il giornalista Mohammed Qreiqeh e i tre fotografi Ibrahim Zaher, Moamen Aliwa e Mohammed Noufal. Una guerra senza stampa La storia della loro uccisione ha creato particolare scalpore sia per quel che riguarda il singolo episodio, dal momento che Israele ha ammesso che le loro uccisioni non sono state una tragica casualità ma l’esito di un’azione mirata e premeditata, sia per quel che riguarda il quadro generale, dal momento che tra i molti problemi legati alla guerra a Gaza ce n’è anche uno, lampante e sistemico, di informazione. O meglio: di impossibilità di informazione. Perché a Gaza non ci sono giornalisti. O meglio, ci sono, ma sono pochissimi. E quei pochissimi che presenti sul campo sono cittadini palestinesi che lavorano come giornalisti. A nessun’altro della stampa internazionale è concesso di entrare nella Striscia. L’unico modo che abbiamo per avere immagini e notizie dalla Striscia è il lavoro svolto dai giornalisti palestinesi e dai citizen journalist che si trovano a Gaza City, a Rafah o a Khan Younis. Non c’è altro modo. E questo porta ad almeno due problemi. Il primo è l’assenza di informazioni: Israele accusa da settimane Hamas, o quel che ne resta, di controllare l’informazione, con notizie false, morti inscenate e scene da una carestia che, secondo Tel Aviv, non esiste. Secondo la lettura di Israele, la narrazione costruita artatamente da Hamas verrebbe propinata alle opinioni pubbliche occidentali, che se la berrebbero senza esitare. Perché Israele non ammette reporter stranieri? Questa ricostruzione, però, porta a una logica conseguenza: ammettendo che sia vero, ammettendo cioè che davvero sia possibile che i brandelli di un’organizzazione islamica e terrorista, sotto attacco da quasi due anni, riescano laddove il potentissimo Stato di Israele non riesce, ossia controllare la narrazione pubblica di questa guerra, allora sarebbe sufficiente che lo Stato di Israele autorizzasse le troupe di autorevoli outlet internazionali come BBC, CNN, Reuters, Associated Press a entrare nella Striscia e a raccontare quella che Israele sostiene essere la realtà. Se davvero i reporter e i citizen journalist palestinesi dicono bugie, logica vuole che basterebbe far entrare nella Striscia le troupe indipendenti per smontarle, queste bugie. Ma Israele continua a non consentire l’ingresso della stampa internazionale. Il secondo problema è l’impunità: ammettendo anche che Sharif fosse vicino a Hamas, o addirittura che fosse a capo di una cellula e che questo, astrattamente, giustificasse la sua uccisione, resta il fatto che con lui sono stati uccise altre persone, contro cui Israele non ha mai mosso nessuna accusa. E prima di loro sono stati uccise altre decine giornalisti, cosa che rende la Striscia di Gaza il singolo posto più pericoloso e mortale per la stampa e che rende difficile credere che le decine di giornalisti uccisi fossero terroristi. E questo è il punto, la vera domanda che ci dobbiamo fare, al di là del lutto e dello sgomento per la morte di un ragazzo di 28 anni: quand’è che è diventato accettabile impedire il lavoro della stampa di guerra? Quand’è che è diventata accettabile una continua mattanza di giornalisti? Quand’è che il democraticissimo occidente ha iniziato a considerare accettabile l’asfissia dell’informazione? Nelle scorse ore, Al Jazeera, che ha dichiarato di aver perso sul campo almeno 11 tra reporter e collaboratori, ha rivolto un appello agli altri outlet internazionali chiedendo loro di contattare quante più persone possibile a Gaza e di chiedere loro di lavorare come reporter e giornalisti. Perché, fino a quando Israele non consentirà l’ingresso di troupe internazionali, ascoltare le voci dei cittadini palestinesi è l’unico modo per evitare che su Gaza cali il silenzio.

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A Gaza non muoiono solo i giornalisti ma anche l'informazione libera

Luciana Grosso