Cinque anni dopo, la polvere al porto di Beirut non si è ancora posata

Sono passati cinque anni da quando, poco prima della sei di pomeriggio del 4 agosto 2020, un magazzino del porto esplose, segnando quella che è considerata la più grande esplosione non nucleare dell’ultimo secolo. A esplodere erano state più di 2700 tonnellate di nitrato di ammonio stipato, da sei anni, all’interno del magazzino 12 del porto. In teoria quel nitrato di ammonio, una sostanza dall’enorme potenziale esplosivo, lì non avrebbe neppure dovuto esserci. Era stato accatastato lì, in via del tutto provvisoria, nel 2014, quando la nave che lo trasportava, la MV Rhosus, era stata sequestrata e il suo carico requisito. Il nitrato di ammonio ha bisogno di essere conservato in condizioni di particolare sicurezza e il magazzino 12 del porto non ne rispettava nessuna. Più volte nel corso dei sei anni nei quali la sostanza esplosiva era rimasta nel magazzino, i funzionari del porto avevano chiesto che il materiale venisse spostato o venduto, ma senza che le loro richieste venissero mai accolte. Era come se quella bomba a orologeria in uno dei principali porti del Medioriente, a pochi metri da case e uffici, non esistesse. O per lo meno non fosse pericolosa. Poi, la sera del 4 agosto del 2020, con un enorme boato, quelle 2700 tonnellate di nitrato di ammonio ricordarono a tutti della loro esistenza e soprattutto della loro micidiale pericolosità. L’esplosione causò 218 morti, oltre 7000 feriti, lo sfollamento di 300mila residenti nell’area circostante il porto e danni per almeno 15 miliardi di dollari. Il tutto avvenne in un Paese già allo stremo. Il Libano non si è mai del tutto ripreso dalla guerra civile finita nel 1990, e, oggi, è uno dei Paesi più poveri della regione, con un tasso di povertà media del 44%, un governo debolissimo e sotto il costante scacco delle milizie di Hezbollah, con una valuta locale che non vale quasi nulla e una popolazione di rifugiati siriani, che vivono in condizioni miserrime e che rappresentano circa un terzo della popolazione. Inoltre, nell’estate del 2020, a tutto questo, si aggiungeva la pandemia da Covid che aveva saturato gli ospedali della città. Oggi, a cinque anni da quel boato, quello che è rimasto sono polvere e macerie. Non solo quelle degli edifici, dei silos, delle case e di una fetta di città completamente distrutta. Restano per terra anche le macerie delle vite delle vittime e dei loro cari, ancora in attesa, se non di giustizia, almeno di verità. E le macerie del Libano stesso, incapace di istruire un’inchiesta e un processo definitivo su quello che è successo. La storia dell’inchiesta sull’esplosione, infatti, sino a qui è stata quella di una non-inchiesta fatta di giudici rimossi, indagini sospese, immunità parlamentari esibite come lasciapassare. Perché il punto è che, ad oggi, non si è ancora riusciti a istruire un processo o a concludere le indagini relative a colpe e responsabilità. Chi ha deciso di accatastare il pericoloso carico di quella nave sequestrata in un magazzino qualsiasi del porto? Chi ne ha impedito il trasferimento? Chi se lo è dimenticato lì, per sei anni, in attesa che l’inevitabile succedesse? Chi ha ignorato il problema? A queste domande hanno cercato per anni risposte, due giudici: Fadi Sawan e Tarek Bitar, entrambi rimossi non appena le loro indagini si sono avvicinate troppo al governo o al partito di maggioranza Amal. E in tutto questo, il pantano in cui è finita l’inchiesta giudiziaria non è solo questione che ha a che fare con il bisogno di verità e giustizia di chi in quell’esplosione ha perso una persona cara o la casa o il negozio. È anche questione molto prosaica di risarcimenti e assicurazioni. Perché, fino a quando non si saprà cosa e perché ha causato l’esplosione, non si saprà neppure chi deve risarcire cosa. Così, oggi, cinque anni dopo la deflagrazione, Beirut e il Libano appaiono esattamente come il porto: sventrati, feriti, provvisori, offesi.

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Luciana Grosso