Accordo commerciale Usa-Ue: vantaggi (pochi) e compromessi (molti)

C’è un’asimmetria sempre più evidente nel modo in cui Stati Uniti e Unione Europea intendono i rapporti transatlantici. Da una parte, Washington – oggi guidata da un Donald Trump tornato in modalità hard power – intende ribadire il proprio primato strategico ed economico, dettando i termini della relazione. Dall’altra, Bruxelles continua a inseguire l’idea di una partnership tra pari, puntando su una ricostruzione dell’asse euroatlantico come architrave dell’ordine liberale. Ma dalla distanza tra queste due visioni nasce un accordo commerciale tutto in salita per l’Europa, che si è presentata alla trattativa con il timore di essere il vaso di coccio, e ne è uscita con molte concessioni e pochi vantaggi. Un accordo sbilanciato Bruxelles accetta un dazio “reciproco” al 15% per mantenere l’accesso al mercato americano, rinuncia a nuove tariffe, si impegna in acquisti massicci di energia e investimenti per 600 miliardi. In cambio, ottiene ben poco: un azzeramento selettivo dei dazi bilaterali su prodotti come terre rare, componenti aeronautici e chimici, e una riduzione dell’imposta sulle auto europee, che resta comunque superiore agli standard pre-Trump. Un compromesso segnato fin dal protocollo: Ursula von der Leyen non è stata ricevuta in una sede ufficiale, ma nella residenza privata di Trump in Scozia, nella tenuta di Turnberry. L’immagine di una leader europea costretta a “salire a Canossa” rende plasticamente l’asimmetria dell’intesa. L’illusione negoziale L’accordo arriva oltre cento giorni dopo il cosiddetto “Liberation Day” del 2 aprile, quando erano entrate in vigore le nuove tariffe reciproche. In tutto questo tempo, l’Europa ha rincorso un’intesa convinta che il dialogo bastasse a ristabilire l’equilibrio. “Von der Leyen ha più volte sottolineato l'importanza del rapporto commerciale transatlantico da 1,7 trilioni di dollari, il più grande al mondo, e aveva fatto appello a Trump affinché concludesse l'accordo più grande che entrambi avessero mai siglato”, ha scritto Politico.eu. Ma la Casa Bianca ha interpretato quell’appello come un segno di debolezza, non come un’apertura da cogliere. In realtà, il 15% di dazio concordato è solo una parte del problema. Come ha osservato Matteo Villa su Ispi, “al danno dei dazi si aggiunge la svalutazione del dollaro, che ha perso il 13% rispetto all’euro dall’insediamento di Trump, rendendo i prodotti europei ulteriormente costosi per i consumatori americani”. In concreto, per un esportatore italiano l’onere complessivo – tra cambio e tariffe – può arrivare al 21%. E secondo le stime, le entrate fiscali del Tesoro Usa derivanti dai dazi sui prodotti europei aumenteranno di nove volte nel medio periodo. La scelta al ribasso Bruxelles ha scelto consapevolmente di cercare la via della mediazione, anche a costo di cedere molto. Ha rinunciato alla minimum global tax per non ostacolare le multinazionali Usa, ha accolto la proposta americana di aumentare al 5% le spese militari in ambito Nato, e ha rivisto in chiave più competitiva i rapporti con Pechino. Ma alla prova dei fatti, i benefici restano modesti. Secondo il Financial Times, l’Europa ha “ceduto” a Trump per tre motivi. Primo, le divisioni interne tra i 27 hanno indebolito ogni ipotesi di risposta coordinata. Secondo, il rischio di escalation commerciale – in particolare su settori come i farmaci e i semiconduttori – è apparso troppo alto. Terzo, Bruxelles teme di perdere le garanzie di sicurezza Usa: l’ipotesi che Trump possa ridurre o interrompere il sostegno militare all’Ucraina, ritirare truppe dal continente o persino disimpegnarsi dalla Nato è una spada di Damocle che ha pesato sull’intera trattativa. La fine di un’illusione L’accordo, alla fine, certifica la crisi dell’asse transatlantico come lo abbiamo conosciuto per decenni. L’Europa si è trovata a scegliere tra la minaccia di dazi al 30% e un patteggiamento al 15%. Ma è una vittoria solo apparente: il compromesso al ribasso rischia di lasciare ferite durature nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. E segna, con ogni probabilità, la fine dell’illusione di una relazione davvero paritaria tra Washington e Bruxelles.

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Andrea Muratore