Sei mesi di Trump 2.0 tra promesse e la prova della realtà

La seconda presidenza di Donald Trump compie sei mesi, traguardo celebrato il 20 luglio, e l’occasione è propizia per permettere un primo bilancio delle politiche del tycoon e del loro impatto sugli Stati Uniti e sugli scenari internazionali. Il presidente statunitense ha celebrato sul suo social network, Truth, la ricorrenza definendo il semestre “il più importante della storia delle presidenze americane”, sottolineando che Washington è passata “di vittoria in vittoria” e che un’età di prosperità è alle porte. La realtà, come spesso accade con Trump, è più prosaica. E parla di un’America governata da un’amministrazione emersa tra roboanti aspettative, una forte retorica nazionalista e dichiarazioni di radicale cambiamento in cui molti processi sono stati avviati senza però far venire meno un sostanziale senso di incertezza. Economia, geopolitica, scenari interni: Trump sta cercando a tutti i costi di trasformare in realtà la sua agenda con cui mirava a rendere gli Usa più autonomi e indipendenti dalle crisi globali, più prosperi e leader negli scenari mondiali. Ad oggi molti processi sono stati avviati senza chiarezza di dove condurranno Washington e il mondo. Il nuovo unilateralismo americano Sul piano della politica internazionale, il presidente che si era ripromesso di porre fine “a tutte le guerre” si è trovato a dover ordinare due interventi militari: un rilancio dei raid in Yemen contro gli Houthi a marzo e, soprattutto, l’attacco ai siti nucleari iraniani di Fordow, Isfahan e Natanz il 22 giugno scorso nel pieno della guerra di Teheran con Israele. Un approccio muscolare alla politica estera che ha scontentato la base della destra populista del movimento Maga vicino a Trump in seno al Partito Repubblicano ma che è stato emblematico del nuovo unilateralismo statunitense: Washington decide in autonomia, in sinergia con un nucleo ristretto di alleati e senza curarsi dei formalismi del diritto internazionale e delle organizzazioni consolidate di cui è membro-chiave l’agenda della sua politica estera. Questo è stato molto chiaro anche sul tema del sostegno all’Ucraina, dove Trump ha inizialmente fatto dietrofront sul consolidato appoggio a Kiev in nome di un confronto diretto con Vladimir Putin per negoziare sulla testa degli alleati una nuova partnership russo-americana. Alla prova dei fatti, però, il compito si è rivelato arduo e, ad oggi, Washington si trova nella condizione di non aver colto risultati apprezzabili nella persuasione di Mosca a un approccio più dialogante. Gli Usa hanno invece rivendicato come un successo la mediazione conclusa a fine giugno per la pace tra Congo e Ruanda, che Trump ritiene premessa fondamentale per l’accesso alle ricche risorse minerarie dell’Africa orientale nel quadro della sfida con la Cina. Economia: dazi per tutti, allarme debito La Cina è stata la principale destinataria dell’offensiva tariffaria di Trump, imposta col fine di proteggere e sviluppare l’industria interna, abbattere il deficit commerciale e contenere il debito statunitense a partire dal suo ritorno alla Casa Bianca. Trump ha imposto a più riprese dazi contro alleati politici e rivali commerciali, non risparmiando nemmeno partner storici come Unione Europea, Canada e Giappone. Finora, i risultati tardano a manifestarsi sul fronte dell’accesso di nuovi investimenti industriali negli Usa, ma appaiono più solidi sul fronte dei ricavi. Nota il Financial Times che “finora questi dazi hanno generato 47 miliardi di dollari in più di entrate rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, raggiungendo il livello record di 64 miliardi di dollari nel secondo trimestre, in un contesto in cui “se tutte le politiche di Trump annunciate entro il 13 luglio venissero attuate, compresi i dazi del 30% su UE e Messico, l'aliquota tariffaria effettiva media per i consumatori statunitensi potrebbe aumentare fino al 20,6%, il livello più alto dal 1910”. L’extra-budget del Tesoro Usa è però solo una frazione del potenziale costo della maggior legge finora approvata dal Congresso a maggioranza repubblicana, lo One Big Beautiful Bill Act che con un combinato disposto di tagli fiscali e sovvenzioni a esercito e sicurezza interna potrebbe aggiungere dai 3,5 ai 4 trilioni di dollari al debito federale, già in condizione critica, nel prossimo decennio. Il fronte interno: lo scontro di potere A tutto questo si aggiunge una critica gestione degli equilibri interni agli Usa che Trump ha terremotato dal suo ritorno al potere puntando su tre priorità: la stretta sull’immigrazione, l’uso dei poteri federali per ridimensionare le voci ritenute ostili nel sistema politico americano, il confronto serrato con le altre istituzioni. Sul primo campo, Trump mira a consolidare i consensi di parte dell’elettorato per la sua agenda di tolleranza zero sull’immigrazione con una politica law and order: “Gli attraversamenti illegali al confine tra Stati Uniti e Messico, che hanno iniziato a diminuire lo scorso anno sotto la presidenza di Biden, sono ora al livello più basso da decenni e grandi città come New York non hanno più difficoltà a prendersi cura di un gran numero di migranti”, nota il New York Times, sottolineando che “allo stesso tempo, le persone in molte comunità, grandi e piccole, urbane e rurali, vedono parenti, amici e vicini immigrati portati via dagli agenti federali”. Sulla seconda questione, Trump ha usato la task force guidata per mesi da Elon Musk, il Department for Government Efficiency per ridimensionare quegli apparati ritenuti feudi del Partito Democratico, a partire dall’agenzia Usaid. Inoltre, sono stati decurtati i fondi a media come Npr e Voice of America e tagliati i finanziamenti a università come Harvard sulla base di accuse dal forte connotato politico legate al presunto lassismo nel contrasto all’antisemitismo. Questo, unito al fronte del continuo braccio di ferro tra Trump e il potere giudiziario, che spesso ne ha ridimensionato o annullato provvedimenti legislativi, ha fatto emergere il profondo dubbio sulla sostenibilità del sistema creato dal tycoon e sullo stravolgimento delle istituzioni americane dal suo ritorno al potere. Trump rivendica che il suo secondo mandato passerà alla storia ma dopo sei mesi, in un’America piena di fratture e chiamata a ripensare profondamente il suo ruolo del mondo, le modalità con cui ciò può avvenire sono tutte da definire. E tra dazi, neoisolazionismo e esacerbazione delle tensioni interne e del conflitto tra poteri ci sono tutte le premesse perché a farla da padrone, in futuro, siano più le crisi che le opportunità in quella che il presidente presenta come una nuova età dell’oro ma è una fase storica ancora tutta da decifrare.

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