Il settore degli aiuti umanitari non se la passa bene

Il World Food Programme ha finito i soldi per i rifugiati sudanesi, l’agenzia Onu per i Rifugiati ha ricevuto solo il 14% dei fondi necessari a sostenere gli sfollati in Ciad, e a Gaza gli aiuti umanitari diventano sempre più militarizzati. Non è decisamente un momento positivo per la cooperazione internazionale d’emergenza, quel settore cioè che si occupa di fornire assistenza immediata alle popolazioni colpite da crisi naturali o da guerre, in coordinamento tra stati, attori privati e agenzie internazionali. La scorsa settimana, il Wfp, il Programma alimentare mondiale, ha dichiarato che potrebbe essere costretto a sospendere l’assistenza alimentare a oltre 235mila rifugiati sudanesi in Egitto entro agosto, se non riuscirà a coprire un deficit di finanziamento di 23 milioni di dollari. All’interno del Sudan, dove la carestia è stata confermata in almeno 10 aree, con altre 17 a rischio, circa 26 milioni di persone, più della metà della popolazione del paese, si trovano ad affrontare livelli estremi di fame. Ma a marzo, il Piano Onu per i Bisogni Umanitari e la Risposta in Sudan aveva ricevuto solo 252,6 milioni di dollari sui 4,2 miliardi richiesti per sostenere le operazioni umanitarie nel paese. “Si tratta di una vera e propria crisi regionale che si sta sviluppando in paesi che hanno già livelli estremi di insicurezza alimentare e alti livelli di conflitto”, ha dichiarato a Foreign Policy Shaun Hughes, coordinatore del Wfp per la crisi regionale del Sudan. Una delle cause è sicuramente il taglio dei fondi da parte degli Stati Uniti, con la decisione del presidente Donald Trump di chiudere l’agenzia USAID, e il taglio del 56% degli aiuti alle agenzie umanitarie; ma anche la Germania e il Regno Unito stanno riducendo gli aiuti rispettivamente di circa il 27% e il 39%, mentre stanno aumentando le spese militari. La salute di milioni di persone a rischio E per la prima volta sulla chiusura di Usaid possiamo anche avere una stima dell'impatto complessivo a livello internazionale, grazie a un nuovo studio pubblicato su The Lancet: dal 2001 al 2021, i programmi dell’agenzia statunitense, rivolti in gran parte ai paesi a basso e medio reddito, avevano contribuito a ridurre la mortalità generale del 15% e quella infantile del 32%, evitando circa 91 milioni di morti, di cui 30 milioni tra i bambini sotto i cinque anni. Ora, con l’83% dei programmi cancellati o sospesi, se questi tagli non saranno invertiti, entro il 2030 si potrebbero contare oltre 14 milioni di morti in più, soprattutto tra i più poveri e i bambini, secondo lo studio. Ma il problema del taglio dei finanziamenti non riguarda solo le agenzie Onu e i programmi da loro gestiti, perché anche le organizzazioni non governative stanno vivendo un periodo di crisi, racconta Foreign Affairs: negli anni ’90, dopo la fine della Guerra Fredda, organizzazioni come Amnesty International, Greenpeace e Oxfam si sono moltiplicate , hanno ampliato budget e si sono rese capaci di influenzare governi, negoziati internazionali e norme globali . La percezione stessa delle ong era quella di essere canali per la voce dei cittadini, strumenti di pressione per i diritti umani, l’ambiente, la trasparenza. Oggi la situazione è molto diversa. I regimi autoritari hanno sviluppato leggi e strategie per limitare o chiudere le organizzazioni, con la Russia di Putin come modello, con la sua legge sugli «agenti stranieri» del 2006 e del 2012. Più di 130 paesi hanno poi introdotto restrizioni negli ultimi trent’anni. Il risultato è che, dal 2010 al 2020, le ong internazionali sono cresciute di meno del 5%, la sfiducia pubblica è aumentata, i governi hanno imparato a contrastarle, e molte fonti di finanziamento, come appunto Usaid, vengono chiuse: i dati dicono che siamo a scesi a meno 7% di finanziamenti destinati alle ong nei paesi Ocse nel 2024. E, come se non bastasse, nel 2021, per la prima volta i sondaggi hanno mostrato che le persone si fidano più delle imprese che delle ong. Gli effetti della privatizzazione Ed ecco che senza società civile e senza fondi per mantenere attivi i programmi di assistenza delle Nazioni Unite, il sistema degli aiuti diventa privato: così gli stati hanno un controllo maggiore su chi può riceverli, e anche sul modo in cui vengono forniti. Un esempio concreto lo stiamo osservando a Gaza in questi mesi: con il blocco delle frontiere, Israele ha avviato un piano che punta a privatizzare e militarizzare la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia tramite la Gaza Humanitarian Foundation , registrata in Svizzera e guidata inizialmente da figure con esperienze militari e umanitarie statunitensi. Questo nuovo sistema, sviluppato con il consenso degli Stati Uniti, ha sollevato giustamente forti critiche da parte delle Nazioni Unite e di numerose organizzazioni umanitarie internazionali, che vedono il rischio, da parte del paese erogante, di usare gli aiuti come strumento di pressione politica e militare, condizionando l’accesso al cibo a controlli e spostamenti forzati della popolazione. Esattamente quello che succede a Gaza. La domanda ora non è se questo sistema sopravviverà nella sua forma attuale , ma se riusciremo a costruire alternative prima che il costo umano diventi insostenibile.

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