Proteste in Serbia, la nuova strategia degli studenti

“Ci sentiamo più sicure qui dentro che in strada. La tensione è più alta di quanto non lo fosse mesi fa, quando l’attenzione internazionale era tutta sulla Serbia e sul raduno del 15 marzo”. Nina, una studentessa di filosofia, fuma una sigaretta con un’amica, appena fuori l’ingresso della facoltà occupata. Dopo la grande manifestazione del 28 giugno, la quarta di dimensioni nazionali tenutasi a Belgrado dall’inizio delle proteste, sembra essersi aperta una fase più repressiva. Gli studenti si sono messi in moto per raccogliere i video delle violenze perpetrate dalla polizia e dai provocatori ai danni dei manifestanti. “Una delle nostre amiche è in carcere e la polizia continua a fermare ragazzi. Alcuni di loro sono stati portati via mentre camminavano, senza un reale motivo”, dice preoccupata Nina. La risposta agli arresti, una decina avvenuti nel quadro degli scontri con le forze dell’ordine nella notte di sabato e che continuano ininterrotti da ormai tre giorni, è la disobbedienza civile: già da mesi si mettono in atto blocchi stradali, oltre alle occupazioni delle università, ma ora questa pratica si è diffusa simultaneamente in tutto il Paese. Nella sola Belgrado domenica si contavano più di dieci snodi occupati. Una città paralizzata ma con ragionevolezza: i varchi si aprono in modo rapido per favorire il passaggio di ambulanze e di auto con a bordo bambini, al contrario di quanto sostenuto dal Ministero della Salute. Le compagnie aeree avvisano i turisti di recarsi con grande anticipo in aeroporto perché il traffico è congestionato. Chi lavora in centro come Vladimir, un addetto alle vendite di 34 anni, ha scelto di dormire domenica notte dentro il negozio, perché la sua casa di periferia era irraggiungibile con i mezzi. “Le proteste sono diventate la quotidianità, a volte ti arrabbi perché rendono la vita più difficile, ma poi ti ricordi l’obiettivo e ti passa il fastidio”, ci racconta. A novembre il crollo di una pensilina nella stazione di Novi Sad, a nord del Paese, ha provocato la morte di 16 persone, facendo deflagrare il dissenso nei confronti del presidente Aleksandar Vučić e del suo partito SNS , al potere da più di un decennio. Sotto accusa la corruzione dilagante, la gestione banditesca degli appalti che arricchisce colossi dell’edilizia vicini alle autorità e le potenze straniere, gli ostacoli alla libertà di stampa e espressione. Un lungo elenco di doléances che unisce nelle piazze cittadini e studenti, i leader del movimento, da otto mesi. Oggi è l’anniversario di quel tragico primo novembre 2024 e della “tragedia che si poteva evitare”, una data diventata già spartiacque nella storia del Paese. La rivoluzione è in atto, ma si aspetta ancora che porti a risultati concreti e una svolta che molti immaginano come un nuovo “5 ottobre”, il giorno in cui nel 2000 cadde il regime del presidente nazionalista Slobodan Milošević, i cui eredi sono oggi ai vertici delle istituzioni. A cominciare da Vučić che fu ministro dell’Informazione durante gli anni bui della guerra del Kosovo. Le elezioni anticipate Dopo mesi di tentennamenti gli studenti lavorano su delle liste di candidati e chiedono “elezioni anticipate”, oltre che la rimozione dell’accampamento davanti al Parlamento dei cosiddetti “studenti che vogliono imparare”, per le opposizioni “hooligan” al soldo delle autorità. Una richiesta, quella di andare alle urne, non scontata in un Paese in cui l’ultimo importante voto nazionale, quello di dicembre 2023, si è svolto con gravi irregolarità. Tanto che ci fu anche una risoluzione del Parlamento europeo, caduta nel vuoto, che auspicava un'indagine internazionale indipendente. “Fino a dicembre di fronte alle prime grandi proteste era il presidente a invocarle convinto di avere la meglio, ma adesso le cose stanno diversamente e ha capito che non vincerebbe tanto facilmente, ha perso il controllo”, spiega uno studente di storia dell’arte che incontriamo durante il blocco stradale di Zeleni Venac, nei pressi del ponte Brankov, il secondo più lungo della capitale, collegamento fondamentale della città vecchia con la Nuova Belgrado. Un primo banco di prova c’è stato a livello locale lo scorso 8 giugno nei comuni di Kosjerić e Zaječar, dove nonostante le forte pressioni da parte del presidente e dai suoi accoliti, denunciate a gran voce dagli oppositori, il partito di governo, l’SNS, ha vinto solo per un soffio. Le parole del ministro degli Esteri russo Lavrov all’indomani del weekend di mobilitazione anti-Vučić riportano lo scontro in atto in una dimensione geopolitica, in un Paese del resto in bilico tra Est e Ovest, tra la storica vicinanza alla Russia e un processo di integrazione europea arenato: “Non provocate rivoluzioni in Serbia sullo stampo di Ucraina e Georgia", ha tuonato rivolgendosi all’Ue, che, a dirla tutta, non ha mai interrotto i rapporti con Vučić e non ha dato alcun endorsement al movimento. Una distanza, o si legga disinteresse, fortemente criticata dall’anima europeista della piazza. Una nuova strategia anche organizzativa La manifestazione di sabato scorso ha portato in piazza circa 150mila persone secondo l’Archivio dei raduni pubblici. Numeri diversi da quelli del 15 marzo, in cui la mobilitazione fu totale - stimati circa 300mila manifestanti - ma in ogni caso una dimostrazione chiara che lo slogan gridato nelle piazze “Non siamo stanchi” non è una formula vuota. Al di là dei numeri, il 28 giugno segna un passaggio fondamentale nella parabola, fino ad adesso ascendente, del movimento. Dal palco in piazza Slavija gli studenti hanno detto che da ora in avanti saranno in strada in quanto semplici cittadini, annunciando un passo indietro dalla leadership organizzativa: “Crediamo in voi, avete il via libera”. Una luce verde simbolica, rimbalzata sui social con l’immagine di un semaforo, che apre a nuovi scenari: è un modo per radicalizzare - nel senso non-violento del verbo - il dissenso e per favorire le iniziative spontanee, e quindi estendere i focolai di protesta. Già da domenica l’iniziativa dei blocchi stradali è stata mista: non solo universitaria, ma civica. “Non possiamo tornare indietro, questo è sicuro”, dice Marko, appena diplomato. A passo veloce cammina per le vie del centro in direzione di un nuovo blocco stradale. Non sa ancora cosa vuole fare da grande, ma è certo che “questa battaglia sarà vinta”.

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