Iran, la guerra a cui finora si erano sottratti tutti i presidenti Usa

Da presidente che avrebbe dovuto porre fine a “tutte le guerre” a leader Usa che ha compiuto il passo a cui ogni suo predecessore si era sottratto: ordinando il bombardamento dei siti nucleari iraniani nella notte del 22 giugno italiano, Donald Trump ha portato gli Stati Uniti dentro uno scenario di cui negli Usa si parlava da decenni ma che non si era mai realizzato finché Israele ha rotto gli indugi attaccando Teheran il 13 giugno scorso. L’attacco americano ai siti nucleari è il punto apicale di un confronto iniziato con la Rivoluzione Khomeinista del 1979 che depose l’ultimo Shah, Reza Pahlavi, fedele alleato degli Stati Uniti, ed esploso in tutta la sua veemenza dopo l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran da parte dei sostenitori dell’Ayatollah, la presa di civili statunitensi in ostaggio e il fallimento dell’Operazione Eagle Claw che nell’aprile 1980 portò al tentativo di liberazione da parte dei Marines. Da allora in avanti, Usa e Iran sono stati avversarsi strategici e si sono confrontati su vari fronti: Washington ha sostenuto l’Iraq di Saddam Hussein durante la guerra con l’Iran negli Anni Ottanta, Teheran ha incentivato il terrorismo sciita nel Libano ove operavano i peacekeeper americani, poi dagli Anni Novanta in poi il confronto sul nucleare della Repubblica Islamica e la sfida geopolitica attorno alla guerra civile siriana, dove Iran e Usa erano su fronti opposti, hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco. Barack Obama e il presidente iraniano Hassan Rouhani trovarono nel 2015 spazio, in questo caos, per la storica e lungimirante intesa sul nucleare iraniano ripudiata tre anni dopo da Donald Trump. Il confronto geopolitico è stato serrato, Teheran sottoposta a durissime sanzioni e spesso nel mirino delle accuse americane per la destabilizzazione del Medio Oriente, ma da Jimmy Carter a Joe Biden nessun presidente americano aveva mai pensato di mettere in campo un’azione militare contro la Repubblica Islamica. Nemmeno durante la presidenza di George W. Bush, quando l’Iran era indicato come leader del cosiddetto “Asse del Male” esteso a Iraq e Corea del Nord e messo nel mirino degli strateghi neoconservatori, Washington arrivò a prendere in considerazione un confronto diretto con Teheran. I piani anti-Iran studiati in passato dagli Usa Rispetto agli altri avversari affrontati dagli Usa negli ultimi decenni, infatti, l’Iran era considerato un rivale capace di rivelarsi un osso duro: l’ampiezza del suo territorio, le complessità orografiche e la presenza di una forza armata di rilevanza tutt’altro che secondaria rendevano remota l’ipotesi di una sua invasione, e anche in caso di attacco i timori per le conseguenze regionali della crisi che ne sarebbe derivata fecero più volte desistere i governi americani dal compiere il passo decisivo. Questo non vuol dire che dei progetti in materia non fossero stati studiati. Nel 2009, nel pieno della sfida tra il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e l’Occidente, la Brookins Institutions pubblicò il documento Which Path to Persia? Options for a New American Strategy Toward Iran, in cui venivano elencate delle possibili manovre che potevano essere compiute per rovesciare la Repubblica Islamica, compresa significativamente una strategia focalizzata sull’inserimento americano in una campagna avviata da Israele. Di recente, inoltre, il generale David Petraeus, dal 2008 al 2010 alla guida di Centcom, il comando militare americano per il Medio Oriente, ha dichiarato che in quello stesso periodo anche la sua struttura stava pianificando una possibile operazione militare contro il nucleare di Teheran. Tutte le amministrazioni hanno preferito operare in altro modo il contenimento della Repubblica Islamica, temendo che un attacco all’Iran potesse scoperchiare il Vaso di Pandora, destabilizzare la posizione Usa in Medio Oriente e portare Washington a un impegno difficilmente quantificabile sul piano militare. A conti fatti, Trump ha deciso di unirsi all’attacco lanciato da Israele in una fase critica per la Repubblica Islamica, colpita negli ultimi anni dalla destrutturazione della proiezione regionale e dall’indebolimento della sua influenza per gli attacchi di Tel Aviv contro Hezbollah in Libano e per la caduta del regime siriano di Bashar al-Assad, in una fase in cui crisi economica e sanzioni mettevano Teheran sotto pressione da tempo. Ma questo non riduce i rischi legati alla decisione di scendere in guerra. L’azzardo di Trump Schierando 7 B-2 Spirit e impiegando per la prima volta in combattimento le bombe anti-bunker GBU-57 nel più intenso raid aereo compiuto dalle forze Usa nel XXI secolo, Trump ha provato a imporre una linea chiara: mostrare la superiorità degli armamenti americani all’Iran per paralizzarne la capacità di risposta e imporgli la de-nuclearizzazione con la forza. Una strategia che, nonostante la fragilità intrinseca dell’Iran, non manca di portare con sé delle conseguenze potenzialmente problematiche. “Per una superpotenza come gli Stati Uniti, le minacce provenienti da un Iran debole saranno gestibili, ma avranno un costo reale", ha scritto Ilan Goldenberg, direttore di Foreign Affairs, secondo cui tali sfide “richiederanno molto tempo e attenzione da parte dei leader americani, nonché risorse militari e investimenti in Medio Oriente che altrimenti verrebbero concentrati su altri teatri”. Per Goldberg, inoltre, i confronti diretti tra Usa e Iran “potrebbero anche avere notevoli effetti imprevisti: dopo la Guerra del Golfo , la vasta presenza militare statunitense in Medio Oriente divenne un grido di battaglia per al-Qaeda e giocò un ruolo negli eventi che alla fine portarono agli attacchi dell'11 settembre”, degradando la sicurezza americana. Nessun leader Usa ha, fino a Trump, mai cercato il confronto diretto con Teheran. Ora il dado è tratto: se l’azzardo del tycoon non pagherà, l’ipotesi di un confronto di difficile gestione non va tolta dal tavolo. E Trump, chiusa la porta alla diplomazia, si trova di fronte un dilemma strategico a cui molti suoi predecessori si erano, comprensibilmente, sottratti. Portando la strategia geopolitica Usa su un territorio inesplorato.

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