Israele-Iran, la guerra moderna è fatta di codici, blackout e bombe

TEHERAN - Il grande occhio digitale di Teheran si è spento nella notte fra il 13 e il 14 giugno 2025, quando Israele ha lanciato l’operazione «Rising Lion» contro oltre 300 obiettivi in territorio iraniano: centrifughe nucleari, basi missilistiche, aeroporti e – simbolo fra i simboli – la torre delle telecomunicazioni di Karaj. Nel comunicare «restrizioni di emergenza» alla rete, il ministro iraniano delle Comunicazioni ha mascherato così un blackout informativo provocato da droni kamikaze, missili a guida di precisione, bombe JDAM e da una serie di accessi cyber preparati nei mesi precedenti. Tsahal, uno degli eserciti più preparati al mondo nel conflitto nel quinto dominio del cyberspazio, dimostra così ancora una volta, come già avvenuto nella guerra contro Hamas e in occasione della prima fiammata del confronto israelo-iraniano nell’aprile del 2024, quanto la componente bellica digitale non sia ancora la protagonista del teatro di guerra. Il controllo del cyberspazio e le diverse offensive digitali, infatti, non hanno guidato l’offensiva, bensì la hanno facilitata nel raggiungimento e nella distruzione degli obiettivi attraverso molteplici direttive. Innanzitutto, i cyberattacchi condotti dai team delle APT israeliane, ossia le unità cibernetiche militari di Advanced Persistent Threat nascoste da tempo nelle reti tecnologiche operative iraniane, hanno inceppato radar e linee di comando, rallentando la contraerea. Pochi secondi e l’istante successivo le testate esplosive hanno centrato e neutralizzato gran parte degli obiettivi assegnati. Proprio il dominio aereo, poi, ha permesso concretamente a Tsahal di conseguire la totale preminenza del dominio del cyberspazio: con la torre di telecomunicazioni del nodo di Karaj ridotto in macerie, Teheran è stato costretto a ridurre del 50% il traffico internet nazionale, paralizzando le comunicazioni militari e azzerando lo strumento principale della propaganda del regime degli Ayatollah: i social network e il web. La controffensiva digitale iraniana, infatti, si è rivelata ben poca cosa: sebbene fra il 13 e il 15 giugno gli attacchi digitali contro asset israeliani siano balzati del 700 % - con 82 gruppi hacktivisti in campo di cui 65 filo iraniani e 17 anti iraniani o filo israeliani – la stragrande maggioranza delle azioni si è tradotta in DDoS o defacement, ossia fastidiose punture di zanzara incapaci di penetrare la pelle coriacea delle difese cyber di Tel Aviv. Le esfiltrazioni di «terabyte» vantate dai vari gruppi restano senza prove, e i servizi essenziali israeliani hanno accusato rallentamenti, non blackout prolungati. Siamo di fronte quindi a una asimmetria strutturale, in cui Israele, grazie a segmentazioni di rete, all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nella caccia a potenziali minacce e a backup georidondanti, può respingere l’ondata e continuare a operare, mentre Teheran, priva della stessa resilienza, adotta la strategia più basica possibile: spegnere l’interruttore e disconnettere la rete per ridurre la superficie d’attacco, perdendo così la capacità di coordinamento militare e la fiducia pubblica. La difesa digitale di Tel Aviv somiglia pertanto a un giubbotto in kevlar, mentre quella iraniana ricorda uno scudo di vetro. Le armi fisiche e digitali si sono combinate in maniera letale per condurre un attacco il più devastante possibile contro il regime degli ayatollah e l’attacco a Karaj ne è l’esempio lampante, capace di conseguire al contempo un risultato tattico - perché colpisce uno snodo vitale - e strategico - perché impedisce la censura di regime. In una serie di uno-due micidiali, ogni blackout mirato nel dominio digitale apre corridoi aerei capaci di portare distruzione fisica in grado di generare nuove crepe nella rete. Si sta assistendo perciò a un caso di scuola di Cyber Kinetic Convergence: un circolo di feedback in cui codici invisibili moltiplicano il potenziale letale dell’esplosivo – e viceversa. Del resto, con il progredire delle capacità di resilienza agli attacchi cyber distruttivi resa possibile dall’intelligenza artificiale, questo sembra essere al momento l’unico ruolo della cyberwar nei conflitti. Oggi non sarebbe più pensabile lo sviluppo di un worm come Stuxnet, che nel 2010 sabotò l’impianto nucleare di Natanz: il software costò circa un miliardo di dollari e tre anni di lavoro sui PLC delle centrifughe. Oggi, con firmware aggiornati ogni pochi giorni/settimane, un clone del genere rischierebbe di diventare obsoleto prima di colpire. Per Tel Aviv e Teheran conviene di più un volo di droni Shahed – dove il costo di un’intera ondata è non supera i 30 milioni di dollari – oppure un wiper rapido che faccia rumore sui social ma danni poco rilevanti. Si delineano pertanto tre scenari, in ognuno dei quali la componente cyber ha un ruolo differente. Il primo è quello di un’escalation controllata, con attacchi mirati e risposte graduate, in cui Israele continua a colpire figure chiave del regime iraniano e Teheran risponde con salve limitate. Le APT israeliane accecano i radar per novanta secondi, mentre botnet filo iraniane cercando di saturare le capacità di calcolo delle cyberdifese di Tel Aviv. In questo contesto, il cyber guadagna minuti e titoli sulla stampa, ma non la vittoria. Il secondo è quello di un confronto frontale prolungato, in stile “modello Gaza”, in cui il fronte digitale è destinato a una guerra di attrito mirata a usurare il morale avversario e a logorarne gli intenti: DDoS cronici, wiper intermittenti a danno delle reti idriche ed energetiche, disinformazione permanente su Telegram. Nulla di catastrofico, molto di snervante: si erode la resilienza economica israeliana e si esaspera la popolazione iraniana. Il terzo è quello di una de-escalation negoziata, favorita da pressioni internazionali e dal coinvolgimento di Oman o Qatar, in cui il primo segnale sarebbe online: fine dei DDoS, silenzio dagli hacktivisti, sensori OT che tornano a routine. In questa crisi la tregua digitale precederebbe quella cinetica, non il contrario. Missili, bombe, rumore, carne, metallo e sangue: il conflitto bellico resta ancora spietatamente fisico. Il quinto dominio del cyberspazio è complementare e non sostitutivo della guerra guerreggiata, che, sebbene resa assai moderna dalle tecnologie militari, resta ancora così come l’uomo la conosce sin dai primordi della sua esistenza su questa terra: violenta, distruttiva, mortale. La cyberwar come l’avevamo immaginata – silenziosa, incruenta, fatta solo di byte – si è rivelata ben altro una volta divenuta a pieno titolo uno strumento militare. Quella che viviamo oggi è Cyber-Kinetic Convergence: una nuova forma di conflitto, in cui ogni attacco informatico prepara un’esplosione reale, e ogni blackout digitale può valere quanto un colpo di artiglieria messo a segno. È il volto più nascosto – e insidioso – della guerra moderna. Finché codici invisibili continueranno a guidare testate reali, la Cyber resterà il tessuto connettivo della guerra moderna: un blackout può valere quanto una salva d’obici, ma saranno sempre detriti e schianti a decidere il risultato sul terreno.

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