Usa-Cina, c’è l’intesa sui dazi: è una retromarcia di Trump?

Stati Uniti e Cina hanno trovato una prima intesa nel quadro dei negoziati volti a gestire le conseguenze della guerra commerciale scatenata dopo il suo insediamento dal presidente statunitense Donald Trump. Le negoziazioni andate in scena a Ginevra e condotte per gli Usa da Scott Bessent, segretario al Tesoro e “colomba” nella guerra commerciale trumpiana, e per la Cina dal vicepremier He Lifeng hanno aperto una finestra di novanta giorni in cui Washington e Pechino ridurranno la pressione tariffaria reciproca. E hanno rappresentato una nuova occasione per Trump per mediare con la realtà e le sue conseguenze la agenda politica. Washington accetta di portare dal 145 al 30% i dazi sui prodotti cinesi: la tariffa sommerà al 10% di dazio base, introdotto nel “Liberation Day” del 2 aprile, l’imposizione del 20% messa in campo a febbraio nel quadro delle ritorsioni americane per il presunto lassismo di Pechino nel contrasto al traffico di fentanyl, che non è stata oggetto di discussione in Svizzera. La Cina porterà dal 125 al 10%, l’equivalente della tariffa “reciproca” base degli Usa, il rincaro per le merci in entrata provenienti da oltre Pacifico. La riduzione avrà una durata di tre mesi nel corso dei quali si prevede che Washington e Pechino dovranno cercare di stabilizzare l’accordo. È opinione condivisa che una continuazione della guerra commerciale avrebbe fatto del male tanto a Washington quanto a Pechino. “Secondo alcune stime, in Cina erano a rischio fino a 16 milioni di posti di lavoro ,mentre gli Stati Uniti si trovavano ad affrontare un'inflazione crescente e scaffali vuoti a causa dei dazi vertiginosi sul principale fornitore di beni statunitensi”, nota il Guardian. Le concessioni Usa a Pechino Washington ha mantenuto un dazio più alto e la Cina non ha per ora inserito il dossier fentanyl nel contesto dei negoziati, ma al contempo è palese che nella trattativa gli Usa hanno dovuto fare concessioni. Un esempio è proprio il fatto che gli Usa hanno acconsentito alla reciprocità cinese sul dazio base al 10%, un dato che è molto diverso, ad esempio, da quello del recente accordo commerciale col Regno Unito, che ha visto Londra impossibilitata a contrapporre un’imposizione analoga alla tariffa americana, che resterà in vigore. In un contesto in cui l’inflazione continua ad essere un problema negli Usa, i dazi di Trump rischiavano di aggravarla e questo minaccia l’agenda del presidente, che mira a un taglio del costo del denaro da parte della Federal Reserve e a portare all’incasso la sua riforma fiscale, un accordo appariva necessario per gli Usa per stabilizzare i mercati e riportare ordine nell’economia. La retromarcia di Trump Foreign Policy nelle scorse settimane aveva avvertito che da una guerra commerciale fondata sull’imposizione di maxi-tariffe sui beni fisici gli Usa avrebbero avuto molto più da perdere della Cina, ricordando che Pechino, ad esempio, “fornisce circa i tre quarti delle importazioni statunitensi di alcuni dispositivi elettronici ad alta tecnologia e difficili da sostituire, come smartphone e monitor per computer” mentre, al contrario, la Repubblica Popolare “potrebbe cavarsela abbastanza bene senza le importazioni statunitensi; il paese importa principalmente beni di fascia bassa e facilmente sostituibili dagli Stati Uniti, come petrolio e soia”. Tutti questi dati sono stati sottovalutati da Trump quando ad aprile ha accelerato il braccio di ferro tariffario con Pechino. Quaranta giorni dopo l’inizio della parte più acuta del confronto Bessent e He hanno addirittura firmato una dichiarazione congiunta orientata a promuovere “l'importanza di una relazione economica e commerciale sostenibile, a lungo termine e reciprocamente vantaggiosa”. Un’ammissione dell’insostenibilità dell’obiettivo di fondo di Trump, la spinta al disaccoppiamento dell’economia americana e dei Paesi alleati dalla Cina. L’ennesima prova della realtà è arrivata: quello con Pechino è un accordo che di fatto segna una retromarcia da parte della Casa Bianca. E suscita ulteriori dubbi sulle motivazioni di fondo che Trump aveva nel promuovere dazi su cui, alla prova dei fatti, è tornato indietro rispetto alle prospettive più radicali praticamente su ogni fronte.

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