L’italiano al centro del mondo (quando parla il Papa)

Papa Leone XIV si è preso circa 11 minuti per presentarsi al mondo dalla loggia delle Benedizioni di San Pietro. Non un semplice saluto, ma un programma in tre lingue, per alcuni quasi un’anticipazione del discorso di insediamento che ci sarà nei prossimi giorni e che contiene già tutti i temi. Scientifico nella capacità di sintesi - del resto è laureato in matematica - e nelle modalità: non è andato a braccio, era armato di un testo scritto. La ripetizione della parola pace - pronunciata ben 10 volte - è quella che più ha colpito. La professoressa Rita Librandi, linguista e storica della lingua che ha curato per Il Mulino il libro La Chiesa e l'italiano, vicepresidente dell'Accademia della Crusca, ci ha aiutato a cogliere le sfumature dell’italiano di Papa Prevost. Un’opportunità per analizzare anche il rapporto tra la Chiesa e lingua di Dante. Lei ha un orecchio molto allenato. Cosa l’ha colpita del discorso pronunciato alla Loggia delle Benedizioni? Possiamo dire che Leone XIV parli, prendendo come termine di paragone l’inizio del Pontificato, un italiano migliore rispetto ai predecessori stranieri da Wojtyła a Francesco? Intanto, conosce delle lingue più vicine all'italiano. Parla molto bene lo spagnolo perché è stato per quasi 25 anni in Perù e spagnolo e italiano hanno molte cose in comune. Ma anche l'inglese da molti punti di vista ha dei tratti vicini alla nostra lingua, perché, a livello di strutture, le lingue occidentali indoeuropee sono prossime. E l'inglese è ricco di latinismi, soprattutto nella lingua colta, nel lessico intellettuale. Ha assorbito molto dal latino, come anche dall'italiano del Cinquecento, e questo la rende più facile. Ha segnato qualcosa con la penna rossa? Ci sono state alcune incongruenze rispetto al nostro standard, ha detto due volte “benediva” invece di “benediceva”, “il quale” al posto di “la quale”. Insomma, piccole cose, perdonabili nel complesso di un buon italiano e di un accento non forte. Papa Bergoglio era più avvantaggiato considerando la sua lingua madre e il dialetto dei nonni, ma questo aveva come risultato una maggiore esposizione alle interferenze - quindi alla confusione tra le due lingue. Probabilmente ci saranno anche per Papa Prevost, dato il collegamento con lo spagnolo, ma credo in modo meno invadente di quanto non fosse in Papa Bergoglio. Ogni pontificato è anche la storia di un apprendimento linguistico e della sua evoluzione. Dopo quasi 50 anni di Papi stranieri ci siamo “abituati”: l’errore fa parte del gioco e del fascino, l’errore avvicina alla gente. Bergoglio spesso coniava attraverso queste sue interferenze delle frasi, delle espressioni che suscitavano anche molto affetto nei suoi confronti. Penso “alla mafia che spuzza”. Oppure Wojtyła che disse nel primo discorso “Se mi sbaglio, mi corrigerete”, in quel caso si trattava di un’interferenza con il latino che è rimasta, però, nella storia. A proposito del latino, è in crisi anche in Vaticano? Cominciamo col dire che l'italiano ormai è la lingua ufficiale della Chiesa, anche se non sulla carta. L’italiano viene adoperato da molti pontefici anche al di fuori dei confini dell'Italia. Papa Francesco, più di molti altri, ha usato l'italiano. E lo ha fatto anche in viaggi in posti lontanissimi, in cui avrebbe potuto adoperare la sua lingua, lo spagnolo. Sarebbe stato mio desiderio come Accademia della Crusca potergli dare un riconoscimento come benemerito della lingua italiana, purtroppo non abbiamo fatto in tempo. La Chiesa è lo sponsor della lingua italiana nel mondo perché offre le uniche vere occasioni in cui sono gli altri a doversi armare di traduttori? A parte l’apporto di Bergoglio, pochi sanno che buona parte dei sacerdoti dell'intero mondo cattolico viene a Roma e viene in Italia a studiare l'italiano. All'Università di Siena per Stranieri ci sono dei corsi specifici di lingua italiana per i religiosi, perché all'interno delle missioni all'estero l'italiano diventa lingua veicolare. Certo, non tutti poi la esercitano e continuano a praticarla con la stessa intensità, le stesse capacità e le stesse competenze, però è un dato di fatto. La Chiesa è oggi uno dei strumenti più importanti e più veloci di diffusione dell'italiano nel mondo. Che tipo di italiano, allora? La riforma e la modernizzazione della Chiesa passano necessariamente per il linguaggio? Senz'altro. Non c’è solo un cambio di lingua, l’italiano al posto del latino, ma di registro. È sempre più preponderante la componente dell’affettività nella scelta dei termini. Ci siamo lasciati alle spalle gli antichi discorsi ieratici. Si sono fatte largo parole che puntano a suscitare l'emozione, gli affetti, i sentimenti. D'altro canto, non sarebbe possibile ritornare a un italiano paludato, arcaico, risulterebbe del tutto incomprensibile alla popolazione, ai fedeli. Diciamo anche che la Chiesa, in tutta la sua storia, ha sempre lavorato moltissimo sulla comunicazione. Non ha niente da imparare dal mondo laico e dei social. Pensiamo a tutta l'opera che i missionari portavano avanti: mi riferisco ai gesuiti come Papa Francesco ma sono stati missionari anche gli agostiniani, a partire dal Cinquecento soprattutto. Nelle missioni spesso andavano senza conoscere la lingua del posto, eppure i missionari riuscivano attraverso i gesti, attraverso le immagini, poco per volta, apprendendo anche la lingua, a comunicare il Vangelo. Un’operazione che combinava due fattori: da un lato commuovere, convincere, dall'altro insegnare la verità della fede, un insegnamento religioso che però era comunque un'istruzione che avvicinava il popolo analfabeta alla parola scritta. Che parole dobbiamo aspettarci da un agostiniano? Gli agostiniani sono diversi dai gesuiti. Sono il terzo ordine mendicante nato nel Duecento, però tutti ricordano, quando si parla degli ordini mendicanti, domenicani e francescani. C’è la loro essenza eremitica, perché nascono proprio dall'unione di alcune comunità di eremiti, in particolar modo da quelli della Tuscia, e poi naturalmente affondano la loro spiritualità nelle parole di Sant'Agostino. Rispetto ai gesuiti puntano soprattutto sulla ricerca dell'amore, della carità attraverso la preghiera, alla vita comunitaria. Il motto dell’ordine è non a caso Charitas et Scientia . Di tutto questo c’è stata traccia anche nel primo discorso? Le parole sono state ancora poche per quanto riguarda Papa Leone. Dobbiamo aspettare, però l'impressione è molto positiva. Intanto come stile mi sembra mite, però allo stesso tempo molto comunicativo, empatico, commosso, emozionato, in stile missionario. Diciamo che Papa Francesco aveva una prorompenza, un'irruenza, per cui diventava immediatamente amico di chiunque, ma in questo caso la mitezza e la dolcezza mi sembra che saranno ugualmente in grado di catturare. Venendo all’analisi, tutti hanno posto attenzione sulla parola “pace”, perché è una cosa a cui tutti aspiriamo in questo momento. Ha colpito l'utilizzo dei due aggettivi: “disarmata e disarmante”, dove secondo me “disarmante” è più importante di “disarmata”, perché disarmante significa che non deve avere armi ma che deve essere in grado di toglierle agli altri. Però ci sono stati molti richiami a quello che rientrava nel campo semantico dell'unità: i “ponti” tra i popoli. La sintesi: noi Chiesa dobbiamo essere un popolo unito, dobbiamo essere missionari perché dobbiamo portare insieme la parola del Vangelo. E l’unità della Chiesa divisa è uno dei dossier sul tavolo di Leone XIV. “Sinodale” è stata una parola fondamentale per la Chiesa, forse più che per noi. L’aggettivo “sinodale“ è stato sempre più interpretato negli ultimi tempi non più solo come assemblea, unione dei vescovi, ma come essere in comunione, sia per il clero, sia il popolo dei fedeli: unità, comunità. Questa è una cosa che a noi forse appare un po' lontana, però all'interno della Chiesa è un problema importante da risolvere. Da questo punto di vista devo dire che secondo me il conclave ci ha dato una grande lezione perché è stato capace di creare un compromesso tra i più rigoristi e i più progressisti avanzati, eleggendo un papa nordamericano, al tempo stesso missionario, aperto al sud e alle popolazioni povere. Il compromesso non è sempre una parola negativa. Stiamo rivalutando la parola compromesso, anche per questo. Non è solo il mondo secolare che influenza la lingua della Chiesa. L’italiano laico continua a essere influenzato dalla Chiesa? Purtroppo ci sono molte parole che non vengono più colte dai parlanti come di origine religiosa o legate alla storia della Chiesa. “Papabile” forse sì, perché è immediatamente riconoscibile, però anche altre espressioni che derivano da parabole del Vangelo, come “il figliol prodigo”, ”l'Unto del Signore”, no. Non tutti sanno attraverso quali vie siano arrivate al parlato comune e quale sia stato il punto di partenza. Il dato però interessante, veramente incredibile, è che tutte le parole che dal cristianesimo in avanti sono entrate nella nostra lingua non hanno mai subito una cosiddetta degradazione semantica, cioè non sono mai state usate in contesti negativi, neanche oggi quando la gran parte delle persone o molte persone non riescono, come dicevo prima, a riconoscerne l'origine. Questo mi sembra un dato particolarmente significativo. La nostra lingua è intrisa di cristianesimi, se vogliamo esprimerci in termini un po' più tecnici. Faccio un esempio: la parola “battesimo” fa parte del lessico fondamentale, cioè di quelle duemila parole che Tullio De Mauro individuava come le più frequenti del vocabolario di base, che ne comprende circa settemila. E così tante altre. È la storia del nostro popolo, del nostro Paese, che è intrisa di cristianesimi, ma è anche la nostra lingua. Anche se l’etimologia è ignorata, c'è una qualche aura intorno a queste parole che non ne consente la degradazione. E questo ci dice molto di chi siamo e ci racconta da dove veniamo.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

L’italiano al centro del mondo (quando parla il Papa)