Trump, fatti e conseguenze dei primi (secondi) cento giorni

I giornalisti americani, soprattutto quelli che Trump definisce radical left lunatics, hanno cominciato ad adottare un piccolo trucco, per evitare di essere del tutto ostracizzati dal Presidente: lo descrivono utilizzando parole ambigue come "rivoluzionario", "influente", "importante", eccetera. È il caso, ad esempio, di Ashley Parker e Michael Scherer, che hanno intervistato Donald Trump per l'Atlantic, magazine odiatissimo dal Presidente soprattutto da quando ha fatto scoppiare lo scandalo della chat Signal con i dettagli dell'attacco nello Yemen. Nella mail con cui hanno chiesto il colloquio alla Casa Bianca, i due giornalisti si sono ingraziati il Comandante in Capo definendolo: "il più importante leader americano del Ventunesimo secolo". Un'affermazione nello stesso tempo apodittica e anodina. Chi potrebbe affermare il contrario? E tuttavia, cosa significa in concreto "importante"? Vale la pena notare che il termine inglese utilizzato dall'Atlantic è consequential, che significa sì importante, ma ha anche una sfumatura di significato legata agli effetti che chi è consequential determina sulla realtà che lo circonda. Trump, sia detto per inciso, ha citato questo termine utilizzato dall’Atlantic nel suo comizio in Michigan, considerandolo evidentemente un complimento. Gli effetti causati da Trump sulla società americana, in effetti, sono dirompenti e quotidiani, così numerosi che è quasi impossibile per i media dedicare loro lo spazio che meriterebbero. Dal 20 gennaio il Presidente ha firmato più di 140 ordini esecutivi e solo cinque leggi vere e proprie, una prova della volontà di procedere in fretta, rinunciando nello stesso tempo a riforme organiche, condivise e destinate a durare. Il ritmo con cui il Presidente firma provvedimenti fa parte della sua strategia comunicativa: non si fa in tempo a parlare delle conseguenze della sua ultima decisione che ne arriva prontamente un'altra. Nei suoi primi cento giorni il Trump II ha avviato lo smantellamento del governo federale, dichiarando guerra alla categoria dei funzionari e delle agenzie indipendenti che finora erano stati una colonna dell'amministrazione statunitense; ha allargato a più non posso i limiti del potere esecutivo, ignorando le prerogative del Congresso con la collaborazione dei parlamentari repubblicani intimoriti dalle tendenze vendicative del Presidente; ha deciso una stretta sull'immigrazione che ha portato a decisioni in palese contrasto con la Costituzione, oltre a una strategia comunicativa raggelante fatta di uomini in gabbia e rumore di catene; ha innescato un'aspra battaglia contro i giudici; ha punito i nemici personali e politici del Comandante in Capo, utilizzando il potere ottenuto come un maglio per schiacciare gli avversari; ha dichiarato una guerra commerciale che sta minando la credibilità americana nel mondo e l'affidabilità del dollaro; ha messo in discussione le tradizionali alleanze internazionali, riabilitando leader autoritari come Putin; ha rinunciato, o quasi, a esercitare quel soft power che si basa anche sugli aiuti finanziari e sugli stanziamenti ai paesi in via di sviluppo. Potrei continuare. Anche quotidiani vicini al mondo conservatore, come il Wall Street Journal, definiscono "nei guai" il Trump 2.0: "è stato eletto per contrastare gli eccessi della sinistra su clima, cultura e censura, e lo sta facendo. Per quanto riguarda altre priorità, l'attuazione non è stata all'altezza delle promesse". I sondaggi concordano nell'affermare che il tasso d'approvazione, per Trump, è basso e in costante calo, anche se scorporando i dati per appartenenza politica ci accorgiamo che il sostegno per il presidente resta solido tra chi ha votato per lui, seppur in flessione . Cifre infondate, assicura Trump, che senza fornire prove a sostegno accusa i sondaggisti di aver interpellato solo cittadini democratici. Mentre l'amministrazione fa il tagliando dei cento giorni, sui giornali americani fioccano gli articoli dedicati a questi ultimi tre mesi. Si cerca soprattutto di rispondere a una domanda: la crisi costituzionale americana è latente o già in atto? Può sembrare un quesito ozioso, considerando che, solo nelle ultime settimane, abbiamo assistito all'arresto di una giudice di contea da parte dell'Fbi, al trasferimento in prigioni straniere di centinaia di immigrati in attesa di chiarimenti sul proprio status , alla cattura e all'espulsione di studenti stranieri senza incriminazione formale, alla deportazione in Honduras di bambini dotati di cittadinanza americana. Anche qui potrei continuare. Come ha scritto Mario Del Pero sul sito dell'Ispi: "al meglio, quello cui stiamo assistendo è un tentativo di alterare in modo radicale gli equilibri tra i poteri. Al peggio, ed è la lettura probabilmente corretta, costituisce una prima, importante torsione autoritaria e illiberale degli Usa di Donald Trump". Allora perché in America si fa fatica a parlare di crisi costituzionale? C'entra la storia dei panni sporchi che non si lavano in piazza, certo, ma c'è anche qualcosa di meno prosaico. In un bel libro intitolato "Lo spirito reazionario", edito in Italia da Minimum Fax, il giornalista di Vox.com Zack Beauchamp ha scritto che i valori democratici sono essenziali per definire cosa significhi essere americani, e dunque storicamente "solo i reazionari più marginali li hanno rifiutati apertamente. I reazionari veri e propri hanno invece adottato un linguaggio democratico per convenienza o per sincero convincimento". La politica autoritaria è intesa da Beauchamp come resistenza al cambiamento e all'estensione dei diritti, e in questo senso è sempre esistita negli Stati Uniti. Solo che nell'immaginario americano il concetto di democrazia è talmente radicato e vincente che persino i sostenitori dello "spirito reazionario" hanno sentito il bisogno di adottarne il vocabolario. Da queste parti gli esponenti del pensiero autoritario si sono affidati a quello che lo storico Jefferson Cowie definisce il «diritto di praticare la tirannia in nome della categoria filosofica universale della libertà». Pensateci: anche i confederati, quando difendevano la schiavitù, dicevano di difendere la libertà. La libertà di possedere schiavi. Ecco perché Trump, pur non avendolo inventato, è il campione del così detto "autoritarismo competitivo", ormai in auge in diverse parti del Pianeta. "Le fazioni antidemocratiche di tutto il mondo", scrive Beauchamp, "hanno iniziato a comportarsi come i loro omologhi americani hanno sempre fatto: usando un linguaggio democratico, competendo alle elezioni e poi una volta al potere svuotando la democrazia dall’interno". Già, perché da sole le elezioni non garantiscono che una democrazia sia piena. Andare alle urne è importante, ma è importante anche il modo in cui ci si arriva: se l'affidabilità del sistema elettorale è messa in dubbio, se l'ambiente mediatico è inquinato, se l'accesso al voto è ingiustamente ridotto per alcune categorie di cittadini, se i distretti elettorali vengono disegnati in modo da favorire una delle fazioni in gioco, la democrazia diventa una scatola vuota. È una sorta di golpe senza carri armati, e per chi lo compie ha il vantaggio che chi lo subisce potrebbe non accorgersene. Il New Yorker fa l'esempio opposto di certi disaster movie, dove il cataclisma è repentino e impossibile da ignorare. In questo caso "i personaggi non devono perdere tempo a chiedersi se stia accadendo davvero. C'è un tremore improvviso e catastrofico, un boato assordante; i sopravvissuti, improvvisamente trasformati, barcollano in un paesaggio carbonizzato e irriconoscibile. Nel mondo reale, però, il cataclisma può arrivare con un rumore di zampe di gatto. Le scosse possono essere così attutite e distanti che le persone vi si adattano continuamente, giustificando le anomalie. Si può sopravvivere al grande evento, a quanto pare, e continuare a comportarsi come se – continuare a sentirsi come se – il grande evento non fosse ancora arrivato". Se, fuor di metafora, il cataclisma è la crisi costituzionale trumpiana, è difficile affermare che stia arrivando con "un rumore di zampe di gatto". Trump si fa precedere dalla fanfara, piuttosto, ma copre le proprie tracce presentandosi come un patriota, il primo difensore degli Usa, più che il suo demolitore. Quello in atto in America, infatti, è anche uno scontro di narrazioni: il Presidente promuove la propria, fatta di cittadini messi da parte, un Paese in declino, e un leader decisionista pronto a cambiare le cose. Potete considerarla una narrazione infondata, ma una bugia ripetuta mille volta assomiglia terribilmente alla verità. Il 5 novembre scorso Trump è riuscito a mettere il Paese under his spell, sotto incantesimo. Riuscirà a tenercelo fino a fine mandato? Anche se la voce dei democratici è decisamente flebile, l'opposizione non manca. I giudici stanno contrastando molte delle decisioni prese dall'Amministrazione, e i membri della Corte Suprema - anche quelli nominati dallo stesso Trump - non sembrano disposti a rinunciare alla propria autonomia. Jerome Powell, il Presidente della Federal Reserve, si è finora dimostrato sordo alle richieste incalzanti della Casa Bianca, ribadite anche durante il comizio dei cento giorni in Michigan. L'Università di Harvard ha respinto le indebite pressioni dell'Amministrazione, fungendo da esempio per altri atenei. Alcuni stati guidati dai democratici stanno opponendo una resistenza più o meno esplicita ai provvedimenti adottati a Washington. Le elezioni di midterm, nel novembre del 2026, saranno uno snodo cruciale per capire lo stato di salute dell'America MAGA e determinare i nuovi rapporti di forza in Congresso. "Abbiamo appena iniziato", ha giurato Trump in Michigan, "non avete ancora visto nulla". Sono passati cento giorni dal giuramento. Alla fine del mandato ne mancano 1360. Allacciate le cinture.

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