Guerra in Ucraina, il possibile voltafaccia di Trump sulla Crimea

“A quanto ne so, la Crimea vuole essere Russia”. Donald Trump non è mai stato tipo da giri di parole, e però la questione della penisola ucraina forse non può essere liquidata semplicemente con una battuta, come è sua abitudine. Stavolta no, perché sono parole che hanno conseguenze, e possono segnare gli anni a venire per il popolo ucraino e per i rapporti di forza globali. No, perché la storia insegna che su quel territorio si sono consumate tragedie immani, sin da quando divenne parte dell’Impero russo, con la cacciata dei Tartari e perché, è del tutto evidente, ha costituito lo scoglio su cui sono naufragate tutte le possibilità di una soluzione diplomatica della guerra in corso. La penisola della discordia Non è in discussione se la Crimea sia o meno russa, almeno culturalmente. La stragrande maggioranza della popolazione parla la lingua della Grande Madre. Ucraini e i residui tartari sono un’esigua minoranza. Resta però il fatto che, nel 1954, l’allora segretario del PCUS Nikita Kruscev - gli storici più maligni sostengono a seguito di una notte altamente alcolica – decise che quel territorio doveva passare sotto la repubblica Ucraina. Non che cambiasse granché, a conti fatti. Nell’Unione Sovietica centralizzata l’appartenere a l’una o l’altra repubblica era pressoché irrilevante. La questione si pose con la dissoluzione del 1991 e la successiva indipendenza di Kiev. Anche qui. Vero che si trattava di un’altra nazione, e che nel porto di Sebastopoli fosse attraccata la flotta russa del Mar Nero, ma è altrettanto vero che i rapporti tra i due Paesi erano più che cordiali, e che insomma, per lungo tempo l’Ucraina sia stata un semplice satellite. Gli equilibri si complicano La storia dell’Ucraina prende una direzione diversa a inizio degli anni 2000 con Viktor Yushenko e poi Iulia Timoshenko che, in modi diversi, spostano il baricentro di Kiev dalla Russia verso l’Europa. È il 2010 però l’anno di svolta, con l’elezione del filorusso Viktor Yanukovich, che nel 2014 viene deposto dalla rivolta di EuroMaidan. Ed è qui che entrano in scena gli “omini verdi”. La penisola di Crimea, all’improvviso, comincia a essere lentamente invasa da soldati senza mostrine. Nessuno sa da dove siano venuti né chi gli abbia dato l’ordine di invadere quel territorio, ma il fatto resta, ed è inoppugnabile. Stanno prendendo possesso, con calma determinazione, dei centri di comando, delle istituzioni, delle caserme, in silenzio, senza spiegazioni. Ma anche senza violenza. Gli omini verdi È del tutto evidente che si tratta di russi, ma Mosca nega. Tra il 20 e il 27 febbraio del 2014 la Crimea è completamente sotto il controllo degli “omini verdi”, che più tardi si riveleranno mercenari della Wagner, la compagnia di sicurezza del “cuoco di Putin”, all’epoca all’apice del suo successo, Evgeni Prigozin. La reazione dell’Occidente è di sbigottimento e indignazione, ma non va oltre. L’amministrazione Obama si limita a non riconoscere l’annessione di fatto e tutti i suoi successori si attengono a questa indicazione. È l’evidente contromossa di Mosca che con i moti di Maidan ha perso – nuovamente – il controllo dell’Ucraina e risponde con una strategia che poi applicherà in Donbass: alimentare l’instabilità e il malcontento della componente russa della società ucraina. Un'acquisizione de facto È vero – come ha sottolineato Trump - che fu Obama a prendere atto dell’operazione russa e che non fece nulla. Ma è anche vero che the Donald, nel suo primo mandato, attraverso il suo segretario di stato Mike Pompeo, ribadì il non riconoscimento dell’annessione della penisola. Era la “Crimea declaration”, con cui gli Usa si impegnavano a non mettere in discussione l’integrità dell’Ucraina. Insomma, se the Donald ha in parte ragione quando accusa il democratico di essere stato un “appeaser”, un pacificatore un po’ arrendevole, a lui si potrebbe controbattere una certa disinvoltura nelle posizioni. Da sempre, in politica estera, il pragmatismo è la stella polare, ma non toglie che questa volta gli interrogativi che si addensano sull’inversione di rotta trumpiana sono molto solidi. Cui prodest? Nel precedente quadriennio Trump ha spesso fatto concessioni e riconoscimenti territoriali: si pensi alle Alture del Golan nel 2019 o, un anno dopo, al Sahara Occidentale. Ma così faceva un favore al suo alleato Israele e permetteva al Marocco di entrare negli Accodi di Abramo. Qui, si domandano gli analisti, quale sarebbe il vantaggio per gli Stati Uniti? il vecchio principio del cui prodest – chi si avvantaggia - resta senza una spiegazione politicamente sostenibile. Anzi. C’è chi nota come la legittimazione dell’annessione della Crimea potrebbe dare forza ad altre operazioni più pericolose, per gli interessi americani. E gli equilibri globali. Si pensi, ad esempio, a Taiwan, dove la popolazione è cinese esattamente come nel resto della Cina. Quale logica dovrebbe impedire a Pechino di riprendere possesso della cosiddetta “isola ribelle”? Una guerra senza fine L’Ucraina, del resto, si sta rivelando un incubo infinito. Dopo tre anni, la guerra non sembra vedere una fine: è un conflitto sanguinoso e costoso, soprattutto per l’Europa, ma anche per gli Usa, che ora sono sempre più determinati a voltare pagina. The Donald ha fatto capire che la Crimea potrebbe essere riconosciuta come territorio russo. Kiev non sembra disponibile, Bruxelles ha ribadito che non avverrà mai formalmente. E che un conto è congelare gli scontri sull’attuale situazione, un conto il riconoscimento ufficiale dello status quo. La foto nella Basilica di San Pietro è un’immagine che farà storia: è il segno di una svolta. In che direzione, però, non è chiaro.

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