Imamoglu, l'ascesa del volto mite della Turchia

Questa non ci voleva, deve aver pensato il Sultano. Le strade in fiamme, le proteste che montano, il potere che trema. E un avversario che si presenta come moderato rispetto al pugno di ferro sfoggiato dal regime negli ultimi anni. Un regime che non vacilla, forse. Ma che percepisce scricchiolii. Perché è vero, alle ultime elezioni presidenziali del ’23 Recep Tayyip Erdogan è andato al ballottaggio. Contro Kemal Kilicdaroglu, poi. Perfino i turchi ironizzavano sul suo nome impronunciabile e la sua totale assenza di carisma. Alla fine, però, il presidente turco era stato riconfermato, e il primo ballottaggio della storia delle elezioni presidenziali si era concluso con una vittoria netta. Una vittoria con molte ombre, però. E tra queste, la più inquietante veniva da un posto per certi versi inaspettato: Istanbul. Le parole rassicuranti Restiamo al 2023, ad Ankara. Il 28 maggio è la serata finale delle elezioni presidenziali. Quel che prevale al quartier generale del CHP, il partito kemalista che sfida Erdogan, è quel misto di trepidazione e crescente consapevolezza di una delusione. Un’atmosfera elettrica che tra i sostenitori di Kilicdaroglu potrebbe facilmente mutare in rabbia. A fronteggiare i microfoni sempre più insistenti della stampa turca e internazionale ci sono vari personaggi, tutti i componenti della coalizione che si è unita per fronteggiare Erdogan, la Millet Iffitaki, l’Alleanza per la Nazione. Fra tutti, il più presente è un cinquantenne con una massa di capelli scuri ben ravviati e gli occhiali senza montatura, in elegante grisaglia e dai modi pacati del professore universitario, o dell’imprenditore. Ekrem Imamoglu non ha un aspetto che incute timore, anzi. Ogni volta che prende la parola, però, c’è una sorta di reverenza, quasi di ammirazione nei suoi confronti, non solo da parte dei supporter del CHP, ma perfino della stampa locale. “Attendiamo”, ripete paziente Imamoglu di fronte agli schermi che rimandano a una vittoria sempre più netta di Erdogan. “È normale che ci siano ritardi nel comunicare i dati. È presto per festeggiare, ma anche per dichiararsi sconfitti”. E va avanti così tutta la notte. Impassibile, calmo, conciliante, ragionevole. D’altronde il primo cittadino di Istanbul ha nel suo curriculum un’impresa storica: essere riuscito a sconfiggere l’AKP, il partito di Erdogan, proprio nel suo feudo. Ecco perché le sue dichiarazioni sono ascoltate con estrema attenzione. Il sindaco più popolare della Turchia Riguardiamo a quel che era successo nel 2019 alle lezioni municipali di Istanbul. Qui era riuscito ad affermarsi per un soffio, ma poi aveva dovuto affrontare il ricorso dell’AKP per presunti brogli e poi nuove consultazioni. Dove però aveva sbaragliato la concorrenza incrementando ancora il suo consenso. Un colpo durissimo per Erdogan, che aveva costruito la sua carriera propria da sindaco di Istanbul. Nel 2024, poi, la riconferma e il bis con Ankara, trascinata dai consensi che avevano incoronato Imamoglu. Ecco il più grande affronto per il Sultano: l’ex capitale dell’Impero Ottomano, la Sublime Porta, in mano ai kemalisti dopo decenni in cui il volto della megalopoli sembrava riflettere il cambiamento radicale che era stato imposto dalla sua presidenza sempre più autoritaria. Sì, perché Istanbul ha sempre avuto una natura cosmopolita. Girare per le sue strade e i suoi vicoli dà ancora l’impressione di aggirarsi per uno snodo cruciale di un’area enorme, di essere esattamente tra Occidente e Oriente. Dove i costumi sono meno rigidi rispetto alle province. La sua conquista e la sua caduta sono un segnale per Erdogan. All’epoca islamista moderato, aperto all’Europa, tanto da chiedere l’ingresso nell’Unione europea, era riuscito ad accattivarsi le simpatie della cittadinanza offrendo una “versione soft” dei Fratelli Musulmani, di cui il suo AKP è una versione turca. Molta acqua è passata sotto i ponti della moderazione del primo Erdogan, ma un fatto resta invariato: chi guida Istanbul può ragionevolmente puntare ad Ankara. E Imamoglu è un sindaco amato. Il più amato della Turchia. Le elezioni del 2023 Eppure, nonostante il successo del 2019, il clima per candidarlo alle ultime presidenziali non sembrava ancora sufficientemente maturo. Motivo per cui tutta la coalizione dell’opposizione, che vedeva per la prima volta anche la partecipazione dei curdi, ha puntato sul leader del CHP, Kemal Kilicdaroglu. Una scelta debole, dettata – sembra, più dalle logiche interne della coalizione che dal reale riscontro di popolarità. Nonostante ciò, al primo turno si affermava ancora Erdogan, ma con un margine sottile, che non raggiungeva il 50%. Segno che il malcontento stava tracimando in Turchia. E non tanto per le politiche sempre più autoritarie del presidente, per la svolta “neo ottomana”, per il suo irrigidimento religioso e la soppressione dei diritti civili, o della libertà di espressione. E neanche la modifica della Costituzione, il sostanziale bavaglio all’informazione, i regressi dei diritti delle donne. A inchiodare Erdogan erano – e sono - i deludenti risultati economici. Lo stop dell’economia Spinta inizialmente dalla speculazione edilizia, infatti, la locomotiva turca si è inceppata per un eccesso dell’offerta, e non solo. Il terremoto del 6 febbraio 2023 che ha devastato l’intera regione al confine con la Siria, ha anche rivelato come il boom immobiliare avesse basi fragili, se non marce. Per non parlare della Lira turca che sui mercati internazionali va a picco da anni. L’inflazione è galoppante: solo a febbraio di quest’anno è stata fissata al 64%. Il prestigio internazionale Certo, occorre riconoscere che a livello internazionale Erdogan è stato abile. È riuscito a trasformare la sua ambiguità in una virtù. Abbandonata – per reciproca mancanza di interesse – la marcia verso l’Europa, ha costruito rapporti solidi con la Russia e la Cina, ma senza alcuna sudditanza. Fornisce i temuti droni Bayraktar TB2 a Kiev, ma fa da intermediario con Putin. Per ora, è l’unico leader ad aver siglato un’intesa con Mosca per il cosiddetto “accordo del grano” all’inizio del conflitto. Ha un esercito tra i più potenti al mondo, e si guarda alle forze armate di Ankara come possibili peacekeeper per la crisi ucraina, una volta giunti a un cessate il fuoco. Se mai accadrà. Resta pur sempre un membro della NATO, e la “coalizione di volenterosi” europei, in costruzione, cerca di attrarre anche la Turchia tra i suoi. Se il prestigio internazionale è solido, a livello interno le cose però vanno decisamente male. Un avversario sfuggente Ed è qui che Imamoglu spunta come quello che gli economisti definirebbero un “cigno nero”. L’evento imprevedibile che stravolge gli eventi. Ora, a posteriori, si può dire che forse le premesse ci fossero già ma, come sempre, le “previsioni ex-post” non hanno valore. E sì, la conquista di Istanbul è un segnale. L’affermazione fiacca alle presidenziali pure. L’economia in difficoltà, certo. Ma le dimensioni del consenso e delle simpatie trasversali che riscuote il sindaco di Istanbul hanno un che di imprevedibile. A suo favore va detto che di Imamoglu non si sa molto, e quel poco è rassicurante. Religioso, è sposato con tre figli. La moglie è un’attivista e non porta l’hijab, il velo islamico. Del resto, è kemalista, quindi laico. Anche se nel suo passato c’è la militanza nel partito di destra ANAP, fortemente nazionalista. Un suo zio era nei Lupi Grigi, per quel che vale, ma giusto per descrivere il côté familiare in cui è cresciuto. Non certo quello libertario delle grandi città. Come Erdogan ha giocato a calcio, anche lui come portiere, ma senza mai eccellere. Viene dalla Turchia profonda: nato a Trabzon – la leggendaria Trebisonda – si è laurato a Cipro Nord. Poi una carriera da imprenditore nel settore immobiliare e successivamente nel consiglio di amministrazione della squadra di calcio cittadina. Un curriculum talmente indefinito, politicamente, che in effetti può andar bene sia ai cosmopoliti abitanti di Istanbul e Ankara, o dell’Egeo, che ai conservatori dell’entroterra. Rassicura tutti anche se le sue idee non sono proprio chiare, a parte la denuncia dell’autoritarismo di Erdogan. Perché è proprio sul fronte del malcontento che affonda le sue solide basi. Il pungo di ferro di Erdogan Che poi sia un bluff, una meteora che – come altri, in passato – ha sedotto l’opposizione e gli osservatori occidentali, sempre più intolleranti nei confronti di Erdogan, è da vedere. Le centinaia di migliaia di persone in piazza non sono una novità: basti pensare alle cicliche proteste da Gezi Park in poi, o al tentativo di golpe attribuito a Fethulah Gulen nel 2016. Alla fine, il Sultano è sempre riuscito a cavarsela, e non è detto che non ci riesca anche questa volta. Quel che colpisce, però, è l’accanimento di Erdogan nei confronti di Imamoglu. Come se avesse fiutato un pericolo incombente. Prima la contestazione della laurea, poi l’arresto con le accuse di corruzione e collusione con il PKK, il partito dei lavoratori curdi, che peraltro ha abbandonato la lotta armata. Tutto, pur di evitare la sua candidatura. Insomma, se un messaggio è chiaro, è che il regime guarda con sospetto a Imamoglu. Non solo Erdogan, ma tutto il complesso che lo sostiene, che per comodità possiamo definire “deep state”, cioè l’apparato militare che, da sempre, sorveglia sulla vita della Turchia. Forse il punto è proprio questo: capire quanto Erdogan e i militari siano ancora in sintonia. È pur vero che il Sultano ha inserito molti suoi uomini nelle gerarchie militari, e che finora l’alleanza ha funzionato. Però. I principi con cui si muovono le forze armate sono certamente incardinati alla lealtà alle istituzioni, non alla cieca fedeltà al presidente. Soprattutto, a un puro pragmatismo, in favore della stabilità. Ecco, la paura che si percepisce in Erdogan non è tanto nei confronti del moderato Imamoglu, ma nel fatto che lui oggi non possa più incarnare quell’ideale che tanto piace ai militari turchi. Forse il sindaco di Istanbul sì. E questo no, proprio non ci voleva.

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