Il trionfo fragile di Trump e i malumori della base repubblicana

Quando non si capiva bene da dove arrivasse il sostegno per Donald Trump, andavamo a cercarlo dietro le quinte dell’America. Paesini lontani dai riflettori, per nulla glamour, tutti simili tra loro eppure nello stesso tempo diversissimi; luoghi dove tempo e spazio si dilatavano e sembrava di tornare indietro di qualche decennio. Spesso lo trovavamo, quel consenso, ed è probabile che sia ancora lì. Non intatto, però. Bisogna allontanarsi un tantino dalle cose, per vederle con più chiarezza. Motoseghe che ruggiscono contro le spese federali, tintinnio di manette ai polsi dei migranti, dichiarazioni forti e post offensivi: il clamore della retorica trumpiana copre qualsiasi altro rumore. Se vuoi che una bugia passi per essere la verità, basta ripeterla un’infinità di volte. Così l’insistenza di Trump nel definire il proprio successo elettorale una “vittoria a valanga” nasconde il fatto che il margine ottenuto da Trump nel voto popolare è in realtà davvero risicato . Dal 1968 a oggi nessun presidente ha vinto con un vantaggio altrettanto esiguo; fanno eccezione George W. Bush nel 2000 e lo stesso Trump nel 2016, che il voto popolare lo persero proprio, pur ottenendo la maggioranza dei grandi elettori. Viste le premesse, la vittoria di Trump resta comunque un trionfo, ma si tratta di un trionfo fragile, scosso in questi giorni da un brivido che per ora corre sottopelle. Lontano da Washington, ci sono elettori che borbottano per il modo in cui Donald Trump sta gestendo il Paese. Non si tratta solo di elettori democratici, ma anche di cittadini che hanno votato repubblicano. A farne le spese sono le seconde file del partito, quando lasciano il Congresso per tornare nei distretti di appartenenza. Rich McCormick era impegnato in un town hall a Roswell, in Georgia, quando una donna gli ha chiesto cosa intendesse fare “per tenere a freno il megalomane alla Casa Bianca”. Standing ovation. McCormick è ammutolito, ma poi ha cercato di difendersi, peggiorando la situazione. “Quando si parla di tirannia e di poteri del presidente, ricordo di aver avuto la stessa discussione con i repubblicani ai tempi dell’elezione di Joe Biden”. Il paragone ha suscitato dei fischi. “Urlarmi contro non vi aiuterà”, ha commentato il deputato, stizzito. A suscitare irritazione sono soprattutto i tagli decisi dal DOGE di Elon Musk e il desiderio del Presidente di cancellare il tetto del debito. Quando McCormick ha giustificato i tagli sostenendo che molti dei posti di lavoro eliminati potranno essere sostituiti dall’intelligenza artificiale l’assemblea ha reagito come potete immaginare. “Sono venuto qui per discutere, voi siete venuti qui per urlarmi contro”, si è lagnato McCormick: “non dovevo venire”. A La Grande, in Oregon, il Congressman repubblicano Cliff Bentz si è sentito chiedere chi diavolo stesse finanziando il DOGE, visto che non è stato creato dal Congresso”. Bentz ha balbettato una risposta insoddisfacente, mentre il pubblico applaudiva. Glenn Grothman, del Winsconsin, è stato fischiato in due occasioni, a Fox Crossing e ad Algoma, mentre rispondeva a una serie di domande su Medicare e Medicaid cercando di difendere l’operato di Musk. Per un esponente repubblicano mettersi contro Donald Trump può essere politicamente molto rischioso, ma per rimanere al Congresso servono soprattutto i voti degli elettori, dunque diversi rappresentati del GOP stanno cercando di prestare orecchio ai malumori che agitano la base. A West Bend, sempre nel Winsconsin, un cittadino si è presentato a un town hall con il deputato Scott Fitzgerald brandendo un cartello con la scritta “i presidenti non sono re”. Incalzato sul ruolo di Musk e sulla crisi in Ucraina, Fitzgerald ha ammesso che non è stata Kiev ad iniziare la guerra, come insinuato da Trump, e che un accordo ottenuto senza la partecipazione di Zelensky alle trattative non sarebbe equo. “Gli ordini esecutivi del Presidente sono fuori controllo”, ha detto il Rappresentante dell’Ohio Troy Balderson, le cui parole sono state riportate dal Columbus Dispatch. Secondo Balderson “è il Congresso che deve decidere se far scomparire il Dipartimento dell'Istruzione: non il presidente, non Elon Musk. Il Congresso”. Lisa Murkowski non è nuova alle critiche nei confronti di Trump, ma adesso che un piccolo fuoco ha iniziato a bruciare è decisa a soffiarci sopra con energia. La senatrice dell’Alaska ha chiesto ai colleghi di unirsi a lei per rafforzare l’opposizione interna: “ci vogliono coraggio e determinazione, e questo richiede più di uno o due repubblicani”. Non è detto che il suo appello verrà raccolto, ed è evidente che il malessere di una parte dell’elettorato conservatore non è ancora così intenso da rispecchiarsi nei sondaggi di gradimento. Secondo l’ultima rilevazione della Gallup l’approval rating del presidente fra i repubblicani è del 93%. I numeri, però, sono molto meno confortanti per la Casa Bianca se invece di guardare solo ai conservatori consideriamo il dato complessivo: 45%, cioè quindici punti al di sotto della media storica di tutti gli altri presidenti dal 1953. Solo Trump fa peggio di Trump, visto che il dato di quest’anno è di cinque punti superiore a quello registrato dal presidente nello stesso periodo del 2017, quindi all’inizio del suo primo mandato. Bill Clinton, che in questa classifica è al terzo posto, aveva comunque sei punti percentuali in più di Trump. Il gap partitico, indice della polarizzazione in atto, è abissale , ed è cresciuto costantemente dalla fine degli anni Sessanta a oggi. Solo il 4% dei democratici approva l’operato del presidente in questo primo mese alla Casa Bianca. Per darvi un’idea, nel febbraio 2021 Biden era apprezzato dal 12% dei repubblicani e dal 96% dei democratici, il 3% in più dei conservatori che oggi applaudono Trump. Un altro sondaggio, questa volta della Cnn, evidenzia come l’approval rating di Trump, oltre a essere piuttosto basso, è in calo dal giorno del giuramento. Il pessimismo è aumentato, e la quota di chi si sente “spaventato” dal secondo mandato di Trump è cresciuta di sei punti da dicembre a febbraio. La maggior parte dei cittadini ritiene che i problemi più importanti affrontati dal Paese siano quelli legati all’economia, e in molti pensano che Trump non se ne stia preoccupando sufficientemente. Il 62% degli intervistati pensa che la Casa Bianca non abbia fatto abbastanza per ridurre l’inflazione, e a pensarlo è anche poco meno della metà dei repubblicani. In molti sono convinti che Trump stia abusando dei propri poteri, e c’è una diffusa diffidenza rispetto alle operazioni messe in piedi da Elon Musk. Secondo Gallup “gli attuali indici di gradimento di Trump in materia di affari esteri ed economia sono storicamente bassi rispetto ai punteggi ottenuti all'inizio del mandato da altri presidenti”. Anche l’ultimo sondaggio Reuters/Ipsos registra un calo nel tasso d’approvazione di Trump, e per lo stesso motivo: l’economia. L’impressione è che i repubblicani siano in vantaggio sui democratici quando parlano di immigrazione e di guerre culturali, ma siano in svantaggio quando si affrontano temi più prosaici. L’opposizione dovrebbe puntare su argomenti bread and butter, come dicono gli americani . Una strategia di questo tipo è stata utilizzata da Mike Zimmer, oscuro ma brioso insegnante dell’Iowa che si è candidato per un seggio al Senato statale, in una zona in cui a novembre Trump ha vinto con ventuno punti di vantaggio. Contro ogni pronostico, Zimmer ha battuto il suo avversario di quattro punti. "Ci siamo concentrati sull'aspetto economico", ha detto Zimmer al New York Times: "andare avanti con le guerre culturali in questo momento non ti porterà da nessuna parte". Michelle Cottle, che ha raccontato la storia di Zimmer sul quotidiano della Grande Mela, riconosce che “dopo la batosta elettorale subita dai Democratici a novembre, ci vorrà più di una sorpresa qua e là per far sì che il partito riacquisti il suo fascino. Ma è così che inizia la ricostruzione. Il partito ferito inizia a riprendersi elettori e territorio, spesso in competizioni poco glamour”. Al di là delle dichiarazioni roboanti, Trump si trova ad affrontare un malessere circoscritto, ma in aumento, nella base del proprio partito e sull’altro fronte un’avversione decisa che sta lentamente trovando il modo di esprimersi. La Casa Bianca ha pubblicato una foto che ritrae il Presidente con una corona scintillante. Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca, sembra dire il Napoleone MAGA. Trump ha dimostrato di non essere molto disposto a mollare il potere. “Se non avessi vinto la mia vita sarebbe stata molto sgradevole”, ha ammesso a Miami qualche giorno fa, con un riferimento implicito ma evidente ai propri guai giudiziari. Dopo essere tornato alla Casa Bianca grazie agli elettori, potrebbe essere deciso a restarci nonostante gli elettori. Non ci ha già provato, in fondo? Quando non si capiva bene da dove arrivasse il sostegno per Donald Trump, andavamo a cercarlo dietro le quinte dell’America. Ora che abbiamo capito da dove arriva, dobbiamo tornare nel cuore del Paese per capire chi potrebbe gridare che il re è nudo.

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