Usa e Israele, fronte comune contro l’Iran ma Trump non vuole colpire Teheran

Marco Rubio e Benjamin Netanyahu confermano: Stati Uniti e Israele sono pronti a marciare all’unisono nella gestione del dossier Iran e nel contenimento di Teheran in Medio Oriente. Ma c’è un punto in cui le strade dei due alleati si dividono: se Tel Aviv è pronta a incamminarsi fino all’obiettivo di un’offensiva militare contro il nucleare iraniano, Washington mira invece a un accordo che forzi Teheran a sottoscrivere un accordo sul nucleare accettando i nuovi equilibri regionali. Il risultato della visita del segretario di Stato Usa al primo ministro israeliano, comunque, è chiaro nel definire l’Iran una minaccia comune. Dopo gli anni della presidenza di Joe Biden, in cui la Repubblica Islamica è stata contrastata da Washington ma non avversata a viso aperto, gli Stati Uniti di Donald Trump sono pronti a restaurare la dottrina di ‘massima pressione’ sulla Repubblica Islamica. Rubio e Netanyahu, pressioni sull'Iran Rubio ha indicato nell’Iran la fonte dell’instabilità regionale: “Che si parli di Hamas o di Hezbollah, di violenza in Cisgiordania, di attività delle milizie irachene, di destabilizzazione in Siria o di uno qualsiasi di questi problemi, tutto ha un minimo comune denominatore nell’Iran”, ha detto l’ex senatore della Florida in conferenza stampa dopo aver incontrato Netanyahu nella giornata di domenica. Netanyahu ha rivendicato che “i colpi inferti all’Iran negli ultimi sedici mesi hanno duramente indebolito il suo asse terroristico" e ringraziato la "forte leadership del presidente Trump" che si è detto possa contribuire a "finire il lavoro". Dialogando con un falco anti-Iran come Rubio, il primo ministro israeliano ha sicuramente trovato un interlocutore attento a dare priorità alla sfida a Teheran, ma in un Medio Oriente segnato dall’onda lunga della crisi iniziata con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 il quadro per un confronto muscolare con l’Iran è notevolmente cambiato rispetto alla prima era Trump. Innanzitutto, l’Iran ha subito duri colpi nel 2024 dopo che Israele ne ha danneggiato ovunque la proiezione regionale, e al ritorno al potere di Trump si è presentato come un Paese meno potente rispetto al passato. Quando la prima amministrazione del tycoon ritirò gli Usa dagli accordi sul nucleare nel 2018 e quando Trump ordinò di eliminare il comandante dei Pasdaran Qasem Soleimani in Iraq nel gennaio 2020 Teheran era una media potenza regionale con una proiezione ramificata fino al Mediterraneo. Ora, i suoi partner libanesi sono profondamente ridimensionati, il principale alleato regionale, la Siria di Bashar al-Assad, è caduto e sul fronte interno Teheran vive da tempo una crisi economica lacerante. L’idea del Paese come destabilizzatore regionale è dunque meno concreta rispetto al passato. Il cambio di scenario In secondo luogo, molto è cambiato sul fronte delle alleanze. La prima massima pressione trumpiana venne esercitata in un contesto di sintonia tra Washington e buona parte del mondo arabo. L’idea del presidente era, dal 2017 al 2021, quella di costruire un’alleanza tra Usa, Israele e monarchie del Golfo imperniata sugli Accordi di Abramo conclusi nel 2020. L’obiettivo? Creare un fronte regionale di contenimento all’Iran favorendo la distensione di Tel Aviv con Paesi come Bahrain, Emirati Arabi Uniti e, in prospettiva, Arabia Saudita. La distensione iraniano-saudita a inizio 2023 e gli attacchi di Hamas nell’ottobre dello stesso anno hanno dato un duro colpo a questo progetto. I massacri di Gaza e gli scivoloni diplomatici di Trump sulla prospettiva di deportare buona parte della popolazione della Striscia hanno fatto il resto, rendendo il Medio Oriente molto meno propenso rispetto al passato a imbarcarsi al fianco di Washington e Tel Aviv nella sfida all’Iran. Come nota la Cnn, “la volontà di Israele di ricorrere alla forza militare è in contrasto con l' attuale desiderio di Trump di raggiungere un accordo di pace con Teheran da posizioni di forza, e di recente i servizi segreti statunitensi hanno messo in guardia sul fatto che attacchi su vasta scala ai siti nucleari iraniani potrebbero aumentare il rischio di una guerra più ampia in Medio Oriente”. Infine, la volontà di Trump di trovare un accordo sull’Ucraina e di scegliere un Paese mediorientale come l’Arabia Saudita come sede dei negoziati con Mosca mal si concilierebbe con una politica aggressiva contro l’Iran. Su questo piano le strategie americane e israeliane divergono, anche se la prospettiva di fondo resta comune: si mira a indebolire nelle fondamenta la Repubblica Islamica per ridimensionarne la proiezione e, in prospettiva, alimentare le possibilità di un regime change interno. La grande differenza è che Netanyahu, che non teme una guerra continua nella regione, è disposto a accelerare questo processo manu militari. Trump invece intende spingere l’Iran a rinunciare alle armi nucleari e a firmare un accordo paragonabile a una sconfitta. Nonostante la comunione d’intenti, non si tratta di una differenza da poco.

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