Gaza, il piano di Trump

Se pensate che il diavolo si nasconda nei dettagli, guardate le cravatte. Nello studio ovale, seduto accanto a Trump, Benjamin Netanyahu ne indossa una rossa, molto simile a quelle preferite dal suo interlocutore. Il Presidente, invece, veste una cravatta azzurra su una camicia bianca, i colori di Israele. Trump è uomo di quantità, più che di qualità, dunque ha la smania di estendere. Estendere i limiti del potere esecutivo come sta facendo per interposta persona , arrogandosi diritti che spetterebbero al Congresso, ma anche estendendo il territorio americano attraverso conquiste per ora solo fantasticate: prima il Canada, poi la Groenlandia, in seguito il Canale di Panama. Ora Trump vuole la Striscia di Gaza. La proposta arriva nella conferenza stampa congiunta che fa seguito al bilaterale con il premier israeliano. Verrebbe da dire che arriva a ciel sereno, se non fosse che con Trump il cielo non è mai così sereno da scongiurare tuoni e saette. Il Presidente americano vuole che gli Stati Uniti assumano il controllo e la responsabilità della Striscia, per bonificarla da mine ed esplosivi, rimuovere detriti e macerie e ricostruirla ex novo. Abituato al mondo del real estate, il vecchio businessman ha l'abitudine di osservare tutto con lo sguardo dell'immobiliarista. Non è la prima volta che nota pubblicamente la felice posizione del litorale di Gaza, adesso promette di trasformare la zona nella "Riviera del Medio Oriente". E i palestinesi? Appunto. Secondo Trump "adorerebbero" andare a vivere altrove, perché la Striscia è un "cantiere di demolizione", un "luogo di morte", una "pila di macerie". L'unico motivo per cui vogliono tornare, secondo il Presidente, è che non hanno un altro posto dove andare. Secondo Trump i palestinesi - tutti - dovrebbero essere accolti da Egitto e Giordania e da altri Paesi non meglio specificati. Il piano del Presidente, per quanto si capisce, non prevede che i gazawi facciano ritorno nella futura “Riviera del Medio Oriente” made in Usa. Oltre a riportare alla mente una concezione della politica che sembrava tramontata nel secondo Dopoguerra, con territori fatti a fette come torte e intere popolazioni sbattute da una parte all'altra, le parole di Trump segnano una svolta rispetto alla posizione assunta dal Presidente nel suo primo mandato. Nel 2016 Trump aveva criticato il nation-building americano in Iraq, e in generale l'intervento statunitense nei conflitti altrui. Era arrivato ad appoggiare la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese. Anche se Trump non ne ha parlato esplicitamente, l'idea di un impegno americano a Gaza non può prescindere da un massiccio impegno militare. Le parole di Trump sono talmente dirompenti che rischiano di mettere in secondo piano tutto il resto. La "massima pressione" sull'Iran, rinnovata di malavoglia dopo le insistenze di Israele, ma anche l'avvertimento a Teheran , gli aiuti americani allo stato ebraico e i tentativi di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, che certo le dichiarazioni di Trump sulla Striscia non rendono più facili. Parlando della fragile tregua raggiunta a Gaza, Netanyahu loda il lavoro dell'attuale Presidente e ignora quello di chi lo ha preceduto. Ci pensa Trump, a Biden: "non ci ha aiutato un granché", dice. L'ex Presidente ha sempre sostenuto che il cessate il fuoco è stato raggiunto grazie al suo team, mentre quello del successore è stato semplicemente tenuto costantemente aggiornato. "Merito il premio Nobel", sentenzia Trump, "ma non me lo daranno". Il trasferimento forzoso di un'intera popolazione, nello specifico oltre due milioni di persone, viola le Convenzioni di Ginevra, firmate anche da Washington. Secondo la deputata democratica Rashida Tlaib è pura e semplice pulizia etnica. Tlaib fa parte di quegli arabo-americani che alle elezioni di novembre hanno boicottato Kamala Harris. La giudicavano troppo filoisraeliana. Chissà cosa pensano adesso.

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