Cosa succede ai migranti dopo il ritorno dall’Albania

Terza volta in tre mesi, cambiano i giudici ma il copione è lo stesso: 43 persone migranti, di origine egiziana e bengalese, sono state prima caricate dalla nave Cassiopea nelle acque del Mediterraneo a sud di Lampedusa e poi trasportate nel porto di Shengjin, in Albania. Lì, hanno atteso la pronuncia dei magistrati sulla convalida della procedura accelerata di frontiera: in altre parole, sulla possibilità di essere trattenuti fuori dai confini italiani. A giudicare, stavolta, sono stati i giudici della Corte di Appello e non più il Tribunale capitolino nella sezione specializzata Immigrazione, a cui il governo Meloni ha tolto la competenza in merito. Ma il risultato è stato lo stesso: la convalida del trattenimento non è arrivata e il gruppo, il più numeroso dall’apertura dei centri in Albania, è già tornato a Bari dove è stato accolto nel Cara in attesa di una risposta alla richiesta di protezione internazionale. Qualche indizio sul loro futuro in Italia arriva da chi la stessa sorte l’ha già affrontata a novembre. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Stefano Greco, appena tornato da Gjader, difensore di una delle persone migranti trasferita nel primo viaggio verso l’Albania. “I primi arrivati ora si trovano a Bari con regolare permesso di soggiorno – spiega – in attesa della pronuncia della Corte di giustizia europea. Ma per chi è tornato adesso in Puglia il rischio di un’espulsione senza possibilità di ricorso, visti i tempi strettissimi, è più concreto”. Perché tornano sempre in Italia Per l’avvocato Greco, membro della Casa dei diritti sociali, la non convalida del trattenimento in Albania non è una sorpresa. Tutto gira intorno alla definizione di “Paese di origine sicuro”, che si riferisce a Stati che “generalmente non generano bisogni di protezione” per chiunque vi risieda. Minoranze comprese. “Anche le recenti sentenze della Cassazione – commenta Greco – non mettono in dubbio che sia il Governo a dover decidere quali sono i Paesi sicuri, ma dicono anche che è il giudice a dover valutare, caso per caso, se quello è un Paese sicuro per il ricorrente”. Egitto e Bangladesh, finora, non sono stati ritenuti sicuri dalla magistratura. Come vivono in attesa della sentenza Al ritorno in Italia inizia l’iter per la richiesta di asilo. Per le otto persone migranti che hanno “inaugurato” i centri in Albania , gli avvocati hanno presentato ricorso contro il rigetto della protezione internazionale e il giudice competente ha sospeso il giudizio rimettendo le carte alla Corte di giustizia Ue. L’udienza in Lussemburgo, per due di loro, è fissata al 25 febbraio. Per gli altri, se ne riparla a settembre. Intanto la loro vita in Italia, pur precaria, è cominciata. “Tutti quanti hanno ricevuto il permesso di soggiorno – spiega l’avvocato Greco – Ora sono tutti regolari sul nostro territorio”. Da Bari, dove si trovano ancora, assicurano che hanno già iniziato a frequentare corsi di italiano e percorsi di avviamento professionalizzante al lavoro. Insomma, “si stanno dando da fare”. Ma il loro percorso d’integrazione è condizionato, come succede sempre più spesso, dalla decisione dei giudici europei: “A livello italiano molti tribunali ormai si stanno bloccando su queste normative rimettendo le carte alla Corte di giustizia – commenta Greco – perché, al di là dell’Albania, questa procedura accelerata di decisione della protezione internazionale viene applicata anche negli hotspot di frontiera che si trovano giù in Sicilia e un po’ in tutta Italia”. E in tutti questi casi la ricerca di un lavoro, talvolta già trovato, potrebbe interrompersi dopo pochi mesi. Difesa in pericolo È lecito, dunque, aspettarsi lo stesso futuro per i 43 appena trasbordati in Italia? Non proprio. A loro, secondo l’avvocato Greco, potrebbe andare peggio. E il motivo sta nella stessa legge che ha trasferito le competenze alle Corti di appello, che ha di fatto anche dimezzato i tempi utili per depositare i ricorsi: da 15 a 7 giorni. I legali sostengono che, a queste condizioni, sia impossibile tutelare il diritto alla difesa delle persone migranti. E, in effetti, l’impugnazione è un percorso a ostacoli. “Per preparare il ricorso bisogno prima stare almeno tre o quattro ore d fronte a ogni persona per farsi raccontare, passo dopo passo, cosa è successo e quali siano le criticità nella loro storia. Teniamo presente che i ragazzi, in Albania, non hanno neppure i telefoni e quindi contattarli è praticamente impossibile: possiamo farlo solo due volte a settimana. Nel primo caso , noi siamo riusciti in tempo record a depositare il ricorso, senza perdere tempo, al tredicesimo giorno. Farlo per 43 persone bloccate in Albania, in 7 giorni, è praticamente impossibile”. Il risultato, secondo il legale esperto in diritto dell’immigrazione, è che “a farne le spese è il diritto di difesa” delle persone migranti. Senza ricorso, il loro futuro potrebbe passare dalle stanze di un Cpr e dalla conseguente espulsione dall’Italia. “C’è la presunzione – chiosa Greco – che, provenendo da Paesi sicuri non abbiano bisogno di protezione e possano benissimo tornare da dove sono venuti, ma sappiamo bene invece che non è così”.

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