Laila Soueif: "Paola Regeni combatte per proteggere tutti i nostri figli"

“Paola, la mamma di Giulio, è nei miei pensieri costantemente. Ogni volta che il mio pensiero va a lei mi viene da piangere. Perché io combatto per un figlio che è in vita. Ma come diavolo si deve sentire lei?! Vorrei dirle: ‘Tu sei molto più coraggiosa, perché combatti per un figlio che hai già perso. Stai combattendo per proteggere tutti i nostri figli’”. Inghiotte le lacrime e un groviglio inestricabile di amarezza e commozione, Laila Soueif, quando parla di Paola Regeni, che ha perso il figlio torturato e ucciso dagli apparati di sicurezza egiziani, al Cairo, esattamente nove anni fa. È un attimo: si ricompone velocemente e sorride sdentata, come a rassicurare chi l’intervista: “Sto bene, tutto a posto”. Suscita tenerezza e ammirazione questa donna fragile e al tempo stesso dalla tempra d’acciaio, che ha scelto di mettere a rischio la sua salute con uno sciopero della fame che va avanti dallo scorso settembre. Ma non è disposta ad arretrare di un passo rispetto alla strada intrapresa. Un modo estremo, il suo, per fare pressione sul governo britannico perché liberi un suo cittadino: il figlio Alaa Abd-el Fattah, il prigioniero politico più famoso d’Egitto, conosciuto anche come il “Gramsci egiziano” e volto dei giorni delle proteste di piazza Tahrir del 2011. “A quel tempo Alaa, che è un informatico, viveva e lavorava in Sudafrica, ma appena apprese cosa stava avvenendo nel suo Paese, decise di tornare”, ricorda. Le chiedo se ha mai provato, in questi anni, a dissuaderlo dall’esporsi sempre tanto e in prima persona. “Sarei la persona meno indicata a farlo, perché io, alla sua età ero molto peggio: ho cominciato a manifestare che avevo sedici anni!”, spiega sfoggiando il suo bel sorriso sdentato. “Quando un figlio è così convinto, non ci si deve contrapporre, perché tanto farà comunque quello che vuole nascondendoti le cose. Meglio stargli vicino e sapere cosa fa”. Sorge il sospetto che questa consapevolezza l’abbia raggiunta da figlia ancora prima che da madre. Le chiedo l’aspetto del carattere che più la accomuna al figlio. “Senz’altro la testardaggine”, risponde sorridendo ancora. Alaa Abd-el Fattah, 43 anni, un figlio piccolo che sta crescendo a Brighton, è detenuto dal settembre 2019 dopo un processo farsa. Ha già scontato una condanna a cinque anni con l'accusa di “diffusione di notizie false”. Sarebbe dovuto tornare in libertà lo scorso settembre, ma la sua pena è stata arbitrariamente allungata fino al gennaio 2027. Lo sciopero della fame di Laila è cominciato, come detto, quattro mesi fa. Da allora si alimenta solo con acqua e sale, tè, caffè e vitamine. Con l’anno nuovo ha anche iniziato una protesta silenziosa davanti a Downing Street. Arriva, mette la sua seggiolina davanti alle transenne, i cartelli con la foto del figlio sorridente per terra, e sul marciapiede aggiunge un nuovo segno col gesso: un giorno in più di sciopero, un giorno in più di carcere per suo figlio. Fa così ogni mattina, per un’ora, a dispetto di qualsiasi condizione atmosferica, in un Paese e in una città che da questo punto di vista, specie in questo periodo dell’anno, sa essere inclemente. A guardarla da lontano, imbacuccata, i guanti a manopola a ripararla dal gelo, Laila sembra quasi una bambina. La tradiscono i ciuffi di capelli, bianchissimi, le profonde rughe che le solcano il viso, il passo incerto. Ha 68 anni, ma rispetto agli standard europei ne dimostra molti di più. Nella protesta la affianca ora, da qualche giorno, anche il giornalista australiano Peter Greste. “Devo ad Alaa la mia vita”, spiega. Il perché lo racconta lui stesso in un articolo pubblicato dal Guardian. Inizia così: “Ho incontrato per la prima volta Alaa Abd el-Fattah 11 anni fa… Ero appena stato sbattuto in cella dal Mukhabarat, il malevolo servizio di intelligence generale responsabile della sicurezza interna, e rischiavo un periodo indeterminato di isolamento dopo essere stato arrestato con false accuse di terrorismo per il mio lavoro di giornalista. Alaa conosceva la situazione. A soli 32 anni era stato imprigionato da ciascuno dei quattro regimi precedenti e capiva sia il tritacarne istituzionale che stavamo affrontando sia lo stress psicologico con cui avrei dovuto confrontarmi”. Data la pressione montante, il ministro degli Esteri britannico, David Lammy, si è recato in Egitto. Ma la sua visita non ha sortito nessun effetto di rilievo. “Ho ripetuto il mio appello per il rilascio di Alaa Abd El-Fattah, in modo che possa tornare dalla sua famiglia. Continueremo a sollevare il suo caso”, la sua principale dichiarazione dopo l’incontro con l’omologo egiziano Badr Abdelatty. Il quotidiano online Politico ha riferito di un “messaggio forte” consegnato alla controparte e di “pressione per il rilascio di Alaa dalla prigione”. Laila Soueif ha chiesto a Keir Starmer di incontrarla. “Ho sempre detto che alla fine è il primo ministro che deve parlare direttamente con il presidente Sisi per ottenere la libertà di Alaa”. Intanto, si fa sapere in un comunicato stampa, i suoi livelli di zucchero nel sangue stanno diventando pericolosamente bassi ed è ormai a rischio collasso in qualsiasi momento.

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