Chi è Joel Kaplan, responsabile degli affari globali nella nuova Meta pro-Trump

A meno di tre settimane dall’insediamento ufficiale di Donald Trump come 47esimo presidente degli Stati Uniti, il mondo del tech si avvicina all’evento con una serie di riallineamenti strategici e mosse preparatorie: l’ultimo in ordine di tempo è anche il più clamoroso, che ha visto il forfait di Nick Clegg, che fino ad oggi era stato il presidente degli affari globali di Meta. Clegg, ex leader dei Libdem britannici e vicepremier del governo di David Cameron, lascerà il ruolo che occupava da sette anni al suo vice Joel Kaplan, Repubblicano ed ex consigliere del presidente George W. Bush, in un avvicendamento che ogni analista vede come un tributo pagato dalla società di Mark Zuckerberg alla nuova amministrazione Trump. Nell’annuncio del suo addio, Clegg ha speso parole di elogio per Kaplan, spiegando che saprà "fare passi avanti su ciò che abbiamo fatto insieme e migliorare ciò che non sono riuscito a portare a compimento". La parte più importante – e insieme rivelatoria – del messaggio del dimissionario è però un’altra, quella dove Clegg scrive: "Spero di aver avuto un ruolo decisivo nel tentativo di colmare le distanze tra i mondi molto diversi della tecnologia e della politica, mondi che continueranno a interagire in modi imprevedibili in tutto il mondo". Poche righe che testimoniano l’enorme eco che l’intersezione tra Meta e la politica internazionale ha generato in tutto il mondo: l’ex leader dei Libdem, nel suo mandato, si è occupato delle interferenze straniere a mezzo social con le elezioni statunitensi del 2016 e il referendum sulla Brexit, dello scandalo dei colossali furti di dati di Cambridge Analytica e delle molteplici audizioni governative che ne sono scaturite. La relazione tra Trump e Zuckerberg ha seguito molti testacoda e giravolte negli anni: ancora nel 2017 Facebook poteva liberamente allontanare Palmer Luckey, fondatore di Oculus, startup di realtà aumentata rilevata dal gruppo, per motivi politici . Dopo un riavvicinamento coincidente con gli anni del primo mandato di Trump, il 6 gennaio 2021, giorno dell’assalto dei fedeli del presidente al Campidoglio, Zuckerberg era stato il primo leader di Big Tech a decidere per il ban del profilo del tycoon newyorkese. Memore di questi trascorsi, la scorsa estate Trump aveva fatto la voce grossa minacciando apertamente “Zuck” di farlo arrestare se avesse provato a "cospirare" contro di lui nelle elezioni di novembre. Il miliardario di Palo Alto aveva risposto con una serie di dichiarazioni pro-Trump, in cui lo chiamava anche "badass", "un duro", dopo l’attentato subito a un comizio; appena il mese scorso, Zuckerberg e Jeff Bezos, il proprietario di Amazon, hanno donato un milione di dollari a testa al fondo per l’insediamento di Trump, nel tentativo di ingraziarsi la nuova amministrazione. Quello di Meta non è certo l’unico voltagabbana di convenienza delle grandi aziende del tech americano: come ha ricordato l’analista geopolitico Alessandro Aresu su X, storie di questo genere sono ravvisabili fin dal mandato di Barack Obama, quando Google aveva prodotto una "relazione speciale" per l’amministrazione del presidente Democratico, aprendo un’era di "porte girevoli" tra il governo degli Stati Uniti e le stanze dei bottoni delle Big Tech. Ora però è cambiato il vento, e con esso le opportunità offerte dalla politica ai grandi timonieri degli algoritmi.

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