Irlanda del Nord, la "battaglia delle etichette" mostra l'impatto della Brexit su Belfast

Il primo test sui rapporti euro-britannici sulle questioni legate alla Brexit per Keir Starmer arriva dall’Irlanda del Nord. Il 20 dicembre scorso i partiti unionisti presenti al Parlamento locale di Belfast hanno attivato per la prima volta il cosiddetto "freno di Stormont". Quest’ultimo è un componente sostanziale dell'accordo sulla Brexit riguardante l'Irlanda del Nord che da un lato apre all’applicazione alla regione delle norme del diritto commerciale europeo per non creare una barriera fisica al confine con la Repubblica d’Irlanda e dall’altro conferisce all'assemblea nordirlandese il potere di opporsi alle modifiche alle norme dell'Ue che si applicano sul suolo del territorio del Regno Unito. Il requisito che l’accordo tra Londra, Belfast e Bruxelles prevede debba esser soddisfatto per l’invocazione della normativa è quello della dimostrazione di "un impatto significativo sulla vita quotidiana delle comunità dell'Irlanda del Nord" delle regole comunitarie che ne sono oggetto. Nel caso della sua prima richiesta d’invocazione il Democratic Unionist Party , principale formazione unionista del campo politico nordirlandese e fautore della Brexit, ha spinto per la decisione partendo da una controversia apparentemente di dimensiona ridotta. Per la precisione, parliamo una normativa europea che prevede un ampliamento della spaziatura e della dimensione dei caratteri sulle etichette dei prodotti chimici. Un banco di prova per future sfide Secondo il Dup, le etichette oggi in uso in Irlanda del Nord non consentono ampliamenti di questo tipo, e il rischio per le aziende chimiche della regione, che fatturano oltre un miliardo di sterline all’anno, è di andare incontro a un pesante aggravio dei costi in caso di loro sostituzione. Il processo di revisione previsto dal “freno di Stormont” apre un dibattito tecnicamente complesso e richiederà ora che una decisione finale sia presa da parte del governo britannico circa la liceità della richiesta nordirlandese. Sulla carta il governo di Starmer potrebbe anche chiedere un’armonizzazione tra il diritto britannico e quello europeo per non cagionare danni a Belfast, che rimane formalmente nello spazio economico comune dei Ventisette. La decisione su una questione ridotta ma simbolica sarà un banco di prova in una fase in cui molte normative comunitarie di ampio respiro si preparano a entrare in vigore. Il 2025 dovrà essere in particolar modo l’anno in cui il Regno Unito si preparerà all’entrata definitiva in vigore del Carbon Border Adjustment Mechanism che tasserà dall’1 gennaio 2026 le importazioni ad alta intensità carbonica da parte delle aziende europee. Se Londra introdurrà dei “dazi verdi” diversi rispetto a quelli europei o sceglierà una strategia diversa per gestire la questione, in Irlanda del Nord potrebbero essere tecnicamente applicati due diritti commerciali diversi, uno per il confronto con i Ventisette e uno, ai sensi del cosiddetto Protocollo di Windsor, per gli scambi interni al Regno Unito. Una sfida politica importante In sostanza, la partita del rapporto con l’Europa resta decisiva per il futuro dell’Irlanda del Nord tanto quanto per quello della politica britannica, che non può ignorare le conseguenze nazionali delle turbolenze vissute a Belfast. In questa fase, infatti, il nodo europeo torna a essere un fattore divisivo proprio perché sta scricchiolando il patto di coalizione che, ai sensi degli Accordi del Venerdì Santo, spartisce potere e ministeri tra il campo protestante e unionista guidato dal Dup e quello nazionalista e cattolico con a capo il Sinn Fein. I partiti si erano accordati a inizio 2024 per un accordo di coalizione che pose fine a due anni di stallo dopo che, nel maggio 2022, il campo favorevole alla riunificazione con l’Irlanda era uscito vincitore dalle elezioni. Michelle O’Neill leader del Sinn Fein, era diventata la prima First Minister nazionalista della storia nordirlandese e da Londra il governo di Rishi Sunak aveva garantito con uno stanziamento di 3,3 miliardi di sterline tra sconti fiscali e investimenti il suo impegno per il rilancio della regione dopo la chiusura dell’accordo. Il Financial Times, però, ricorda che il governo in carica da 11 mesi “non ha ancora un vero piano per sistemare le peggiori liste d'attesa del servizio sanitario del Regno Unito e ha troppo pochi soldi per soddisfare tutte le esigenze infrastrutturali della regione”. Nonostante gli sforzi del ministro delle Finanze, Caoimhe Archibald, che ha saputo amministrare al meglio i fondi disponibili riducendo molti sprechi e contenendo le uscite e il debito di Belfast, l’esecutivo non è riuscito ad adottare un piano incisivo per affrontare le emergenze, spesso rimandando decisioni difficili per via della cronica mancanza di risorse, soprattutto a causa della minor appetibilità dell’Irlanda del Nord per gli investimenti privati dopo il caos post-Brexit. Cosa insegna la "battaglia delle etichette" La “battaglia delle etichette” lanciata dal Dup, in questo contesto, mostra come il nodo europeo possa tornare ad essere un tema di grande divisione politica nella regione in una fase in cui al governo a Londra c’è un Partito Laburista che spera in rapporti più cordiali con Bruxelles ma nel Regno Unito spirano venti contrari a ogni tipo di mossa che anche solo lontanamente possa far pensare a una preparazione al ritorno del Paese nell’Ue. Colpevolizzare l’Unione, come insegna Nigel Farage, è un’arma capace di garantire facili consensi nel Regno Unito. Ma le conseguenze politiche possono essere di ampio respiro in una fase in cui, comunque, l’accesso al mercato comunitario è vitale per un Regno Unito gravato da crescita anemica e da un aumento sostanziale del debito, che non può permettersi un braccio di ferro con Belfast a ogni normativa potenzialmente contestata dai conservatori unionisti e dovrà esser in futuro in grado di anticipare quelle che potranno apparire le normative potenzialmente più scivolose per la sua regione più periferica e meno sviluppata.

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