Alluvione Valencia, un mese dopo: anatomia di una catastrofe

Duecentoventidue morti. Duecentoventidue persone che hanno perso la vita mentre camminavano a piedi, procedevano nelle loro auto, o mentre erano semplicemente in casa, proprio lì dove ci si sente più al sicuro. Che erano ignare, fino a pochi minuti prima, della pericolosità e della forza dell’onda che le avrebbe travolte. Duecentoventidue è un numero spaventoso, un bilancio che nessuno, in Spagna, avrebbe ritenuto credibile per un evento estremo, seppure almeno in parte prevedibile come un’alluvione, prima dello scorso 29 ottobre. Un numero che, ancora oggi a un mese di distanza e chissà per quanto, infiamma di rabbia chi ha perso un familiare, un amico. O la casa, gli investimenti di una vita. E che solleva polemiche politiche, perché il corto circuito tra istituzioni locali e nazionali ha contribuito non poco ad aggravare una situazione già tragica. L'anno zero di Valencia e l'incompiuto Plan Sur I giornali spagnoli hanno ribattezzato il 2024 “l’anno zero di Valencia”: prima del 29 ottobre, il problema principale di questa regione del sud della penisola iberica, che nel 2007 si rifece il look per ospitare l’America’s Cup, aggiungendo edifici e musei moderni firmati da archistar come Santiago Calatrava a un centro storico già famoso nel mondo, erano l’overtourism e la conseguente ascesa dei prezzi delle case. Adesso, bisogna ricostruire strade sprofondate e ponti crollati, restituire un tetto a chi ha perso tutto, aiutare negozianti e imprenditori a riaprire. Bisogna rifare, ma in scala più grande, quanto fu fatto nel capoluogo dopo un’altra alluvione, quella del 1957, che fece 80 vittime: allora il corso del fiume Turia, che passava dentro il capoluogo, fu deviato fuori dalla città e il suo letto fu allargato. È stato esattamente questo, stavolta, a salvare Valencia dalla furia della Dana. A vederlo oggi, il letto del fiume Turia è un’autostrada a tre corsie. Quel pomeriggio del 29 ottobre si è gonfiato come mai prima, ma non è esondato. Gli argini hanno tenuto. I lavori fatti dopo il ’57 rientravano però in un più ampio piano, noto come “Plan Sur”, che prevedeva anche delle vasche di contenimento al di fuori della città, e che non fu mai completato. Ivàn Zamarròn Mieza, professore di Ingegneria al Politecnico di Madrid che al bacino idrografico di Valencia ha dedicato il suo dottorato, spiega che esiste attualmente un progetto, "già pensato, esaminato, disegnato, di una diga di contenimento nell’area della Sierra di Chiva che avrebbe contenuto molto i danni, ma che non è stato messo in pratica per mancanza di interesse politico, perché non è in agenda, forse perché non c’era un budget stabilito". I sobborghi del sud tra abusivismo e politica assente I letti dei fiumi Poio e Magro, che a est e a sud del capoluogo attraversano Utièl, Chiva, Paiporta, Alfafar, Catarroja e tutti i sobborghi più pesantemente colpiti dalla tragedia, versavano da decenni in condizioni ben diverse da quelle del fiume Turia. In questi fiumi il letto è rimasto lo stesso da oltre 50 anni, non c’è stato nessun intervento di ingegneria idraulica, ma neppure, spiega ancora Zamarròn Mieza, nessun intervento di pulizia "per una strana idea di conservazione per cui i letti dei fiumi non si possono toccare, non si possono pulire, e quindi dentro c’è immondizia, c’è di tutto". A contribuire ulteriormente all’erosione del territorio, poi, la speculazione edilizia: "Molti di noi ci chiediamo come sia stato possibile autorizzare progetti edilizi nel demanio pubblico vicino al letto dei fiumi, in zone soggette a inondazioni. A Valencia non c’è alcuna razionalità nello sviluppo del territorio", osserva il professore Ivàn Zamarròn Mieza. Su un territorio del genere, una quantità di acqua pari a 400 litri per metro quadrato in 24 ore non poteva non comportare i danni devastanti che abbiamo visto. Gli errori sull'allarme Se dei danni erano dunque prevedibili, l’altissimo prezzo pagato in termini di vite umane perse non prescinde da una inefficiente gestione dell’emergenza. E, prima ancora, dalla sottovalutazione di quanto stava per accadere. Quello stesso giorno, in mattinata, il presidente della regione Carlos Mazon spiegava in una conferenza stampa che la perturbazione si stava spostando versa la zona di Cuenca e che l’intensità delle piogge sarebbe diminuita dalle 18. Le cose, purtroppo, sono andate diversamente. La divisione valenciana della Aemet, l’Agenzia meteorologica spagnola, aveva diramato un allarme rosso già alle 7.36 del mattino del 29 ottobre, e proprio mentre il presidente della regione rassicurava, alcuni fiumi come il Magro, iniziavano a esondare. Alle 10.30 era in corso una riunione con la Protezione civile e la polizia, alla quale Mazon non ha preso parte. Alle 12.20 una prima allerta viene diramata alla popolazione delle zone attorno al fiume Poio, attraverso i social network. Ma il primo vero allarme pubblico, con un sms del centro di coordinamento delle emergenze, arriva sui telefoni di tutti i cittadini alle 20.12. A quel punto la catastrofe in molti dei 78 municipi colpiti è già compiuta, i fiumi sono esondati ore prima, tra le 16 e le 18, trascinando con sé auto, alberi, cartelli stradali, abbattendo ponti e radendo al suolo le case. Un avviso tardivo che ha scatenato la rabbia degli abitanti, impreparati a gestire un fenomeno di tale portata e rimasti soli a fronteggiarne le conseguenze nelle ore immediatamente successive. Il corto circuito politico istituzionale Da qui le palle di fango lanciate contro Re Felipe, la regina Letizia e il presidente del consiglio Pedro Sanchez, arrivati in visita nelle aree più colpite qualche giorno dopo. Da qui le manifestazioni in cui i valenciani hanno chiesto le dimissioni del presidente della regione Mazon. "Qualcosa nel nostro protocollo di comunicazione non ha funzionato", ammetterà José Angel Nunes, il capo dell’Agenzia meteorologica valenciana. "Abbiamo seguito l’iter previsto dai protocolli in questi casi", si è difeso Mazon nelle ore immediatamente successive. Lo scorso 15 Novembre, riferendo al parlamento regionale, delle scuse a mezza bocca sono arrivate, con queste parole: "Non esistono esperienze precedenti paragonabili alla Dana. Ecco perché c’è stata una generale sensazione che gli aiuti non fossero sufficienti. Per questo, come presidente, mi voglio scusare con chi ha avuto questa sensazione, perché anche se i protocolli erano stati già testati e applicati, la loro capacità di risposta non è stata sufficiente". Scuse che arrivano anche dopo giorni di rimpallo di responsabilità politica con il governo centrale. Gli aiuti da parte di Madrid sono arrivati tardi, lo stato di calamità naturale che ha permesso l’arrivo dei militari è stato proclamato a una settimana esatta dall’inondazione. E se questo ha consentito a Mazon, del Partito popolare, di accusare il governo socialista di Pedro Sanchez di fornire aiuti con il contagoccie, è vero anche che lo stesso Mazon avrebbe potuto chiedere al governo di Madrid di dichiarare l’emergenza nazionale, a patto però di cedere proprio a Madrid il potere di gestire l’intera faccenda. Una richiesta mai arrivata. D’altro canto però lo stesso governo avrebbe potuto dichiarare l’emergenza anche senza richiesta da parte della regione: non è accaduto. E il premier Sanchez, riferendo anche lui alle Camere, ha invece difeso il proprio operato: "La domanda è se il governo ha compiuto con le sue responsabilità, e la risposta è che sì, lo ha fatto". "El Pueblo salva el pueblo" Mentre la politica litigava, la gente si arrangiava come poteva. Le scene di cittadini e volontari che hanno passato intere giornate a spalare fango con pale e olio di gomito sono diventate ben presto il vero simbolo e l’unica nota positiva di questa tragedia. La frase "el pueblo salva el pueblo" è comparsa, in pochi giorni, su bandiere e cartelli per le strade. A ribadire un cesura tra due mondi.

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