Ecuador, l'eutanasia non è più un reato: la sentenza della Corte costituzionale

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Il tribunale si è espresso favorevole sul caso Roldán, 42enne affetta da SLA che aveva intentato la causa ad agosto. Il Paese è ora il secondo in America Latina dopo la Colombia ad aver decriminalizzato il suicidio assistito. Prima la pena prevista oscillava tra i dieci e i tredici anni di reclusione

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La Corte costituzionale si è espressa: con sette voti favorevoli contro due, la pratica dell’eutanasia è stata depenalizzata. In parole semplici, i medici non saranno più condannati se vorranno aiutare i pazienti, malati terminali, a morire. La decisione arriva dopo che ad agosto Paola Roldán, affetta da SLA, aveva intentato una causa definendo la sua condizione “dolorosa, solitaria e crudele”. Prima, il Codice penale assimilava l’eutanasia al reato di omicidio. La pena prevista era compresa tra i dieci e i tredici anni di reclusione. Adesso l’Ecuador è il secondo stato dell’America Latina ad aver decriminalizzato l’eutanasia (la Colombia lo fece nel 1997). 

“Ogni essere umano può prendere decisioni libere”

La Corte costituzionale ecuadoriana ha annunciato che d’ora in poi la pratica non sarà considerata incostituzionale, spiegando che “sarebbe irragionevole imporre l’obbligo di rimanere in vita a qualcuno che sta attraversando questa situazione” e che “ogni essere umano può prendere decisioni libere e informate quando il suo sviluppo personale è compromesso, il che include la possibilità di porre fine all'intensa sofferenza causata da una lesione fisica grave e irreversibile o da una malattia grave e incurabile”. Il tribunale si è, dunque, pronunciato a favore della causa di Roldán, nonostante la Chiesa Cattolica romana rimanga contraria all’eutanasia. Si attende la conversione in legge da parte del parlamento della sentenza, che, comunque, può essere già applicata. 

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Il caso Roldán

La scelta della Corte costituzionale è una grande vittoria per la quarantaduenne Paola Roldán, affetta da SLA, patologia neurodegenerativa che colpisce le cellule motoneuronali. La donna ha affermato che ora il suo Paese è “un po' più accogliente, più libero e più dignitoso” e che “La lotta per i diritti umani non è mai una strada asfaltata”. La famiglia la sostiene nella sua battaglia adesso vinta, consapevole che l’applicazione della sentenza comporterà la perdita della loro Paola. 

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