Morto Henry Kissinger, luci e ombre di un personaggio spesso frainteso

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Federico Leoni

Federico Leoni

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Qualunque giudizio si voglia dare sulla sua carriera, è stato abile soprattutto nel coltivare la propria immagine, cavalcando con grande scaltrezza le tendenze del momento e alimentando il mito del Machiavelli americano, del Metternich capace di introdurre negli Usa un’abilità da vecchio mondo nel dipanare gli ingarbugliati intrecci della politica

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Per gli ammiratori era geniale, arguto e quasi onnisciente. Secondo gli avversari, non pochi, cinico, spregiudicato e criminale. E' stato divisivo fino alla fine, Henry Kissinger: un risultato non da poco per un vegliardo. Divisivo anche oltre la fine, a dire la verità: lo dimostrano gli omaggi postumi di Russia e Cina, non proprio due amiconi degli Usa. 

Un abile comunicatore

D’altra parte Kissinger, qualunque giudizio si voglia dare sulla sua carriera, è stato abile soprattutto nel coltivare la propria immagine, cavalcando con grande scaltrezza le tendenze del momento e alimentando il mito del Machiavelli americano, del Metternich capace di introdurre negli Usa un’abilità da vecchio mondo nel dipanare gli ingarbugliati intrecci della politica. 

 

Luci e ombre

Fu vera gloria?  Chi difende Kissinger ricorda i suoi successi diplomatici: la distensione con l'Unione Sovietica, la riapertura delle relazioni con la Cina (idea di Nixon, in realtà), la shuttle diplomacy in Medio Oriente, la gestione delle trattative in Vietnam, che - seppure spregiudicata nei tempi - gli varrà il Nobel. 

I critici contano i morti sulla sua coscienza: i bombardamenti in Cambogia, le vittime delle operazioni in Sudamerica, quelle durante il golpe di Pinochet in Cile.  

 

La ricetta Kissinger

Rinunciando a letture manichee, però, il giudizio è necessariamente più articolato. Mario Del Pero, autore di un irrinunciabile saggio sulla politica estera kissingeriana, ha notato in un contributo per la Treccani come l’influenza di Kissinger tenda a farsi sentire nei momenti di crisi, quando più si è disposti ad accettare i suoi “precetti semplici e inequivoci: riduci oneri e costi dell’interventismo globale; delega responsabilità agli alleati; metti da parte utopie democratizzatrici o grandi progetti di modernizzazione e sviluppo; tutela a-moralmente l’interesse nazionale. L’applicazione pratica di questi (banali) presupposti fu tutt’altro che coerente o riuscita”.  

 

Obiettivo supremazia

Kissinger, protagonista dell’America divisa dal Vietnam tra gli anni Sessanta e Settanta, era tornato al centro della scena negli ultimi anni, in un Paese più polarizzato che mai. Non è un caso.

Il (presunto) realismo kissingeriano era diverso dal realismo tout court: significava perseguire l'obiettivo della supremazia globale senza infingimenti.   

Era un fatto, apparentemente, di reputazione e credibilità, che vanno perseguite con disinvoltura e senza privarsi di alcuna arma. 

Diplomazia sì, ma anche guerra. Controllo degli armamenti sì, ma anche investimenti bellici. I conflitti locali sono l'inevitabile prezzo da pagare per scongiurare l'olocausto nucleare. Nella così detta diplomazia del linkage tutto è collegato, la guerra è limitata e il negoziato è permanente. 

Teorie messe a punto per giustificare i fatti, più che strategie da perseguire per determinarli. Una tecnica molto utile quando si tratta di navigare tra i perigliosi scogli della storia. Questo Kissinger lo ha fatto alla grande, e lo ha fatto addirittura per un secolo, consigliando in tutto dodici presidenti, cioè addirittura un quarto del totale.

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