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Il coraggio di rallentare, quando le due premier Sturgeon e Ardern dicono basta

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Domenico Barrilà

Domenico Barrilà

©IPA/Fotogramma

Le dimissioni ravvicinate di Jacinda Ardern, che il 19 gennaio 2023 si dichiarò “esausta”, e quelle di Nicola Sturgeon, che quattro settimane dopo denuncia la brutalità della politica, sono atti rivoluzionari, ribellioni salvifiche, per i piccoli e per i grandi. Dicono, senza che si possa dubitare, che non siamo in grado di reggere accelerazioni insensate

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“Fermata d’autobus in un luogo della città. Mi ricorda la via Spartaco dove prendevo l’autobus 84, quando abitavo a Milano. È mattina e c’è il sole. Arrivo trafelata alla fermata, sono in ritardo e indosso solo mutande e reggiseno. Nessuno fa caso a me, malgrado ci sia tanta gente che aspetta l’autobus”. Si tratta di un sogno, l’avevo raccolto da una donna milanese sulla cinquantina. Ci fa toccare con mano tutte le criticità nascoste nell’accelerazione coatta delle nostre vite, dal senso di anonimato all’indifferenza reciproca, dalla solitudine alla frenesia che anestetizza.

 

Sono andato a cercarlo nel mio archivio, dopo le dimissioni della prima ministra scozzese, che seguono quelle della premier della Nuova Zelanda. Forse i loro sogni, ispirati da fatiche e responsabilità assai maggiori, erano popolati dalle stesse angosce, dalla stessa paura di smarrirsi, di non trovare più quel “senso” che sembra fuggire da tantissime esistenze. Anche il senso corre, a suo modo.

 

Le motivazioni che sostengono le dimissioni delle due premier pare siano, oltre che vicine nel tempo, piuttosto simili, logoramento da stress, sebbene quelle della scozzese potrebbero avere ragioni più politiche. Resta il fatto che la vita consuma, alcune sue strade ancora di più, soprattutto quando l’esercizio del potere non è mosso soltanto da avidità, un “consumo” che non riguarda il genere degli interessati, non penso che avremmo dovuto argomentare in modo diverso se le due protagoniste fosse stati dei maschi, è il defezionare che fa riflettere.

 

Quando accade che sia una persona importante a dire basta, tutti vedono, registrano, talvolta commentano, negli altri casi prevale l’assuefazione. Da anni, tanti anni, l’elenco di coloro che “cedono” alla fatica si allunga, e per molti l’unico modo non lasciarsi contaminare è ignorarlo, passare oltre, ma non saprei quanto sia saggio perché difficilmente qualcuno sfuggirà a questo tritacarne. Nell’anno appena trascorso, fonti ufficiali, un milione e 600 mila persone si sono dimesse dal proprio lavoro nel nostro paese, una delle motivazioni più frequenti dice che si cercano dimensioni esistenziali più favorevoli. Una buona notizia, in fondo, quando il lavoro cessa di invocare il suo primato su tutto il resto, significa che sta succedendo qualcosa di positivo. Speriamo l’emorragia continui.

 

Considero che se decidessimo di rallentare, anche solo di poco, perderei buona parte dei miei pazienti, logorati dalla traumatica frattura tra il tempo, le cui dimensioni sono immodificabili, e gli eventi, il cui aumento nelle nostre vite è sempre più fuori controllo e richiede sforzi di riadattamento di portata sconosciuta a chi ci aveva preceduto nei secoli.

Una frattura cui sarà complicato porre rimedio, che travolge l’uomo, ferendolo nei suoi compiti vitali -amore, lavoro, amicizia- sui quali era saldamente appoggiato da millenni. Smottamenti che non risparmiano neppure i soggetti che dovrebbero fornire rimedi e che invece si attardano su parole che non afferrano più la realtà.

Quando Sigmund Freud decise di dire ciò che non si poteva dire, perché lo impedivano le convenzioni vittoriane, e aprì lo spioncino che dava sulla vita intima, il treno era ancora in concorrenza con la carrozza a cavalli, la velocità un

sogno alimentato dai romanzi di Jules Verne, i transatlantici cominciavano a rammendare i continenti, ma non si poteva andare e tornare a piacimento, ci voleva tempo e danaro, molto danaro. La staticità era una cifra comune. Nell’arco di una giornata si potevano vivere al massimo un paio di eventi, all’incirca recarsi al lavoro la mattina presto, tornare a casa la sera tardi, poi abbiamo messo i piedi su un piano inclinato e niente è stato più lo stesso.

 

Accelerare richiede tanta energia, che spesso non abbiamo, così finiamo per vivere “a debito” o per non vivere affatto. Eppure, continuiamo a soffermarci su narcisismi e altre parole iniziatiche, omettendo lo spaventoso braccio di ferro che siamo stati costretti a ingaggiare con il mondo che ci contiene. Certo, invece di parlare delle cause, possiamo aggiustare i caduti, basta schierare un esercito di terapeuti. Ma non può durare in eterno, possiamo aumentare i terapeuti, ma i caduti cresceranno più velocemente. La moltiplicazione degli eventi a parità di tempo è stata la svolta più aggressiva nella storia dell’uomo, ponendo quest’ultimo sotto una pressione inaudita che ne mette in discussione identità, equilibrio, salute mentale, come mai è accaduto prima d’oggi.

 

Dovremmo intervistare i bambini per capire quali sono i riflessi dell’accelerazione sulle loro vite e immaginare il nostro futuro. Piccole reclute diagnosticate e curate come mai prima d’oggi, con apporti di psicofarmaci che si sono impennati drasticamente. Dovremmo domandare ai ragazzi, così bene interpretati dalla studentessa padovana nelle scorse ore, quando si è chiesta da dove arriva la legittimità a esercitare spinte insostenibili su di essi, da parte della scuola e delle famiglie, conducendone tanti vicini al punto di rottura. In questi mesi abbiamo assistito a dibattiti, talvolta surreali, che si sono concentrati sugli effetti del Covid sulle giovani generazioni, ma la pandemia si è solo “posata” su un terreno reso fragile dall’insensatezza, non è causa prima, semmai dimostra che è bastato rallentare, sia pure forzosamente, perché spuntassero fuori domande importanti, prima sotterrate.

Le dimissioni ravvicinate di Jacinda Ardern, che il 19 gennaio 2023 si dichiarò “esausta”, e quelle di Nicola Sturgeon, che quattro settimane dopo denuncia la brutalità della politica, sono atti rivoluzionari, ribellioni salvifiche, per i piccoli e per i grandi. Dicono, senza che si possa dubitare, che non siamo in grado di reggere accelerazioni insensate. Tuttavia, rimarranno gesti romantici per una specie che oramai confonde la velocità col progresso, dimenticando colpevolmente che è stata una società lenta a portarci qui, dandoci modo di perfezionare la nostra natura cooperativa, alla quale dobbiamo tutto.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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