Violenza sulle donne e infibulazione: le voci di chi dice no. Il reportage dal Senegal

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Monica Napoli

Dal racconto di Seydi, che ha conservato il coltello con cui ha subito la violenza, alla battaglia di Kadiatou per istruire i giovani fino al progetto di Sy e alla storia di Sally: viaggio tra le donne africane che si oppongono alla mutilazione genitale femminile ancora diffusa in molte aree rurali del continente

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“Quando ho visto il coltello da utilizzare per praticare l’infibulazione, coltello che ho ereditato da mia nonna perché mia madre è morta giovane, l’ho praticata una sola volta e ho capito perché tante persone dicono che non è una cosa buona da fare. Ci sono delle conseguenze molto pericolose, nefaste. Ho deciso di abbandonare per sempre”. Fatoumata Seydi è una giovane donna di Kolda, cittadina nel Senegal del Sud, poco lontano dal confine con la Guinea Bissau, una delle zone dove è ancora diffusa la partica delle mutilazioni genitali femminili. Era destinata, come la nonna e la madre prima di lei, ad infibulare le bambine e le ragazze del suo villaggio e dei villaggi vicini, spettava a lei continuare la tradizione di famiglia, per questo le è stato tramandato l’unico strumento necessario per l’infibulazione: il coltello. È bastato vederlo e mettersi alla prova, una sola volta, per dire no e rifiutare un’eredità troppo pesante. Da sola, ha capito la pericolosità della pratica e il rischio per le condizioni igieniche inesistenti, ha spiegato alla sua famiglia quello che aveva compreso. 

Malattie e altri pericoli 

“Ho spiegato alla mia famiglia che non era una pratica buona da fare, le ho mostrato le conseguenze, i rischi di malattie e i pericoli che corrono le giovani che subiscono l’operazione. Hanno capito”, ci spiega nel cortile della sua abitazione dove, oggi, accoglie le ragazze e le bambine in difficoltà. A casa, le hanno chiesto di conservare il coltello, come si conserva un cimelio di famiglia. Lo stesso coltello che la nonna aveva utilizzato per infibulare lei quando era ancora troppo piccola per ricordare. Ce lo mostra, lo prende dalla cassapanca dove lo custodisce avvolto in un panno. “Un coltello che non dovrà più essere utilizzato, mai più”, ci dice ancora.

Torture e abusi

Coltelli come quello di Seydi sono stati uno strumento di tortura, in Senegal, per milioni di donne, infibulate tra i due e 12 anni. Dal 1999, una legge vieta la pratica nel Paese eppure, nonostante innumerevoli campagne di sensibilizzazione, il fenomeno è ancora estremamente diffuso, soprattutto nei villaggi, nelle aree più dimenticate e rurali. Mani legate, piedi immobilizzati, bambine e giovani ragazze subiscono l’asportazione di parte dell’apparato genitale femminile che poi viene ricucito lasciando solo un piccolo foro e un trauma che difficilmente si può dimenticare.

Padrone del proprio corpo

Per superare questo shock, per evitarlo, in prima fila ci sono ora proprio le donne come Fatoumata, donne che per prime si sono ribellate a questa pratica. Parlano alle più giovani, spiegano rischi, pericoli e soprattutto la possibilità di dire di no. Per essere padrone del proprio corpo e della propria vita. Sono le sensibilizzatrici, donne che parlano alle donne per salvarle.

La battaglia di Kadiatou

Tra le prime a iniziare quest’opera di sensibilizzazione c’è Kadiatou Boiro, sposa bambina a 14 anni che ha trovato la forza di ribellarsi al marito sessantenne ed è andata via. Da allora, ha fatto della battaglia contro le mutilazioni genitali femminili la sua causa, appoggiata anche dal secondo marito e dalla sua famiglia. Dal 2003 gira per villaggi ed ospedali, si reca ovunque la chiamino, ospita ragazze e donne in difficoltà e, a tutte e tutti, spiega cosa accade al corpo quando viene praticata l’infibulazione, i rischi che si corrono. Noi, la incontriamo a Kolda.

L'importanza di conoscere

“Le ragazze che incontro sono contente di sapere, di capire cose che non sanno. Tutto quello che non si conosce, se spiegato viene compreso e loro ne sono davvero contente", racconta Boiro. Poi prosegue: "Ci sono ragazze che vengono da me con il coltello che gli è stato tramandato, mi domandano e io glielo spiego. Qualcuna resta a casa mia, lì possono studiare, andare a scuola. Sono gli anziani che spingono per questa pratica nonostante gli venga spiegato che non è una cosa da fare”. Dopo poco, la donna ci lascia per raggiungere una madre e le sue due figlie che l’attendono perché hanno bisogno di lei, dei suoi consigli e delle sue parole. Aiuta a far capire cosa sono le mutilazioni genitali ma anche il rispetto del proprio corpo e della propria persona, della propria vita.

Babacar Sy e il progetto di Amref

Istruzione, educazione e conoscenza sono le armi per debellare un fenomeno che cambia la vita a milioni di donne. E al lavoro per aiutare e salvare queste donne ci sono ragazze e ragazzi, adulti e adulte impegnati in campagne di sensibilizzazione che portano in giro nei villaggi, tra la gente. Babacar Sy è il coordinatore del centro giovanile di Kolda, dove un progetto Amref si preoccupa di sensibilizzare i più giovani.

“Dopo l’infibulazione resta un piccolo foro dove passa urina e ciclo mestruale. È una cosa molto complicata perché la maggior parte delle ragazze pensa di essere nata così, perché nessuno spiega a queste ragazze cos’è l’infibulazione",  ci spiega. "Una pratica che viene esercitata per evitare che le giovani abbiano una vita sessuale ma che porta conseguenza gravissime, queste ragazze non conoscono la loro anatomia” ci spiega", prosegue. Poi conclude: “Quando una ragazza si sposa subisce la defibulazione, si va ad aprire quel foro ed è una seconda violenza per loro, costrette una volta sposate a rapporti sessuali per una settimana dopo l’operazione per evitare la cicatrizzazione. Queste ragazze provano un dolore fortissimo che associano al marito”. 

La storia di Sally 

L’atto sessuale prima, il parto poi. Traumi importanti se non vere e proprie torture per chi ha subito una mutilazione genitale. Malattie, menomazioni, problemi psicologici e della sfera sessuale. Per migliaia di ragazze, anche l’invalidità. Sally Radio aveva due anni quando le è stata praticata l’infibulazione e da allora non ha mai più camminato bene. Ha saputo cosa le era stato fatto dalla madre: era stata proprio lei a imporre il rispetto di una tradizione ancora salda in alcune zone. Negli anni ha subito tre operazioni per cercare di riuscire a camminare bene di nuovo ma senza stampelle non riesce comunque a muoversi. Oggi è una delle ambasciatrici di Amref.

“Dopo le informazioni che ho ricevuto, è un obbligo per me sensibilizzare le persone sui rischi dell’infibulazione perché sono un esempio di quello che può accadere con l’infibulazione, non posso stare ferma e zitta”. 

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