L’isola che non c’è (più). Viaggio nella terra più a rischio del mondo

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Marco Congiu

L’isola di Jean Charles, in Louisiana, sta affondando nel Golfo del Messico. I suoi abitanti sono i primi “rifugiati climatici” degli Stati Uniti. Il reportage

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ISOLA DI CHARLES, LOUISIANA
 

C’è un’unica strada che separa l’isola che non c’è più dal resto del mondo. Un’unica strada, spesso sommersa, che attraversa questo stretto lembo di terra tra i bayous, le paludi della costa sud degli Stati Uniti. Porta a un’isola fantasma, che sembra essere stata abbandonata all’improvviso: un miliardo di moscerini, molti gabbiani, qualche pellicano, e poche case -palafitte rialzate di molti metri- in rovina. L’isola di Jean Charles, a due ore di macchina da New Orleans, in Louisiana, sta letteralmente affondando nel golfo del Messico. Scomparire o scappare è la scelta che hanno dovuto compiere le famiglie che la abitavano. I residenti erano discendenti dei nativi americani che si rifugiarono qui nell’Ottocento. Nel momento di massimo sviluppo, a Jean Charles abitavano 400 persone, e c’erano un’ottantina di abitazioni. Poi, alla fine degli Anni '20, lungo la costa trovarono gas e petrolio.

Qui i primi rifugiati climatici degli Stati Uniti

Furono tagliati i canali naturali, alterando circolazione e salinità delle paludi. Dighe e argini artificiali lungo il Mississippi ostruirono il flusso naturale delle acque, compromettendo le protezioni naturali da erosioni e mareggiate. Gli uragani sempre più frequenti hanno fatto il resto. Un’isola di 90 kmq è stata così ridotta a meno di uno e mezzo, e gli scienziati prevedono venga totalmente sommersa entro 50 anni. Il delta del Mississippi è oggi la terra che scompare più velocemente al mondo. Rispetto alla media globale, nell’ultimo secolo il livello del mare nella regione costiera del Golfo del Messico è salito di 15 centimetri. Ogni ora -per subsidenza, erosione, innalzamento del mare, uragani, e per mano dell’uomo- viene ingoiata dall’oceano una porzione di suolo grande come un campo da football. Nel 2016 il governo americano ha finanziato un programma per il ricollocamento dei nativi di Jean Charles. I primi rifugiati climatici degli Stati Uniti sono entrati nelle loro nuove case, una sessantina di km nell’entroterra, appena poche settimane fa.

Cercando di non perdere il senso di comunità

“Per finanziare questo progetto – ci spiega Pat Forbes, direttore esecutivo dell’Office of Community Development dello Stato della Louisiana- ci venne concessa una porzione degli aiuti federali contro i disastri naturali: 48 milioni di dollari”. Una ventina di famiglie ha già la loro casa qui. Altre otto traslocheranno entro un mese. Ed entro marzo saranno qui 37 (delle 40) famiglie di Jean Charles. “Ciò che è interessante e unico di questo progetto -sottolinea- è che ricolloca una intera comunità: se salvi le persone ma le lasci disperdere, perdi quel senso di comunità e cultura costruito in 150 anni di vita assieme. Quindi il nostro obiettivo non era solamente trovare un posto nuovo e sicuro dove far vivere questa gente, ma creare l’opportunità perché questa comunità potesse essere preservata e anzi tornasse a crescere”.

Le case progettate per resistere agli uragani

“Le nuove case -dice Forbes- sono progettate per resistere agli uragani, ed essere nuovamente abitabili nel giro di pochi giorni invece che settimane, mesi o anni”. Sono infatti in grado di sopportare venti a 150 miglia l’ora: finestre, porte, tetti, tutto è fatto per impedire l’ingresso dell’acqua, che è ciò che fa più danni. I tetti sono doppiamente sigillati, imbullonati con viti speciali, e in più l’intera struttura -fino alle fondamenta- è ancorata con travi di ferro che penetrano nel terreno alla profondità di un metro. Il nuovo insediamento è stato ribattezzato dai suoi abitanti “The New Isle”. Chris Brunet, della tribù Choctaw, è da molto tempo in sedia a rotelle per una paralisi cerebrale. La sua famiglia ha vissuto a Jean Charles per cinque generazioni. Si è appena trasferito.

E' facile dire che “il cambiamento climatico non è reale"

Lo incontro sul portico della sua nuova casa, e gli racconto che il giorno prima ho riconosciuto la sua vecchia abitazione grazie a un vistoso cartello giallo: “Il cambiamento climatico fa schifo”. “L’isola non è morta -dice combattivo- Non è perduta. Tu ci sei andato ieri. I bambini ci vanno ancora a pescare. Ci sono ancora persone che ci abitano. E che non vogliono lasciare le proprie abitazioni”. Gli chiedo come mai. “I nativi sono sempre stati diffidenti nei confronti del governo federale da quando vent’anni fa decise di lasciarci fuori dal sistema di protezione dagli uragani perché il rapporto costi/benefici non era favorevole”, mi spiega.   “Non so se mi definirei un sopravvissuto -dice- Mi sento una persona che ha dovuto prendere una decisione, perché l’ambiente intorno a lui stava cambiando. Tutto quello che è stato fatto finora per il cambiamento climatico non è una soluzione, ma un adattamento”. Chiedo che ne pensa degli ambientalisti e dei negazionisti. Ci riflette in silenzio per un po'. “Se il tuo ambiente, quello che ti circonda, non è coinvolto al punto da dover prendere una decisione come la mia… il cambiamento climatico è sempre qualcosa che accade da un’altra parte. Magari protesti perché è una causa giusta, ma alla fine della giornata torni a casa tua, non devi averci a che fare. Insomma è molto facile dire “il cambiamento climatico non è reale”.

Un destino che non riguarda solo la Louisiana

Il destino dell’isola di Jean Charles può sembrarci un problema remoto. Ma non è così. Secondo i climatologi, quello che sta succedendo qui in Louisiana accadrà entro pochi decenni in altre zone costiere del mondo. “La Louisiana è 10, 20, 30 anni avanti ad altre regioni. Ma anche altrove stanno cominciando a vedere lo stesso impatto” ci dice dalla sua casa di New Orleans il Professor Alex Kolker, climatologo all’Università di Tulane e autorità sull’ecosistema del Delta del Mississippi. “Le persone vivono nelle aree costiere in tutto il mondo. Molte delle più grandi città del pianeta si trovano lungo le coste: Tokyo, Londra, S. Pietroburgo, le megalopoli dell’India… Ricostruire gli ecosistemi e rafforzare le protezioni funziona, ma in parte dipende da cosa facciamo per contrastare il cambiamento climatico. Se l’innalzamento dei mari resta modesto, questi piani avranno buone chance di successo. Ma se il livello del mare continua ad aumentare e le tempeste diventano sempre più forti come abbiamo visto nel Golfo del Messico, allora quei piani saranno molto più difficili da attuare, e molte più persone saranno coinvolte”.  Entro il 2100 -dicono gli esperti- potrebbero non avere più una casa 13 milioni di americani, il 70% in Stati come questo. Senza contare quelli colpiti da altri fenomeni climatici estremi, come gli incendi. Non è inevitabile, dice il Professore. Ma la strada per salvare il pianeta si fa sempre più stretta. “E avremmo dovuto iniziare decenni fa”.

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