Iran, morte Mahsa Amini: le donne tagliano i capelli per protesta

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Falò di hijab, capelli tagliati in pubblico, cori contro l’establishment. Nel Paese irrompe la rivolta dei giovani e delle donne per commemorare la ventenne morta in custodia per non aver rispettato i codici di abbigliamento

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Non si fermano le proteste per la morte di Mahsa Amini, la ventiduenne di minoranza curda morta a Teheran il 16 settembre mentre era agli arresti per aver indossato il velo in modo non conforme alla legge. In tutto l’Iran le donne si spogliano degli hijab, danno fuoco ai veli e si tagliano i capelli in segno di dissenso con un regime che limita sistematicamente le libertà delle donne. 

Gli esordi della protesta

Le prime manifestazioni hanno preso il via sabato, giorno in cui sono stati celebrati i funerali della giovane. La cerimonia di commiato si è tenuta a Saqqez, città della provincia curda dove Mahsa è nata e cresciuta. Il Kurdistan iraniano è stato il primo terreno di scontro, ma le proteste hanno varcato presto i confini della regione: dalla provincia del Gilan a quella di Yazd fino alla capitale Teheran. Nella giornata di lunedì, si è aperta una fase più cruenta del conflitto tra manifestanti e polizia. Le ONG hanno dichiarato che le vittime degli scontri sono cinque, mentre le autorità locali hanno parlato di 3 morti. La repressione lascia dietro di sé anche una scia di feriti: più di 75, secondo Hengaw, associazione impegnata sul fronte dei diritti del popolo curdo. A scendere in piazza in nome di Mahsa sono soprattutto i giovani. Protagoniste delle adunanze le ragazze iraniane che prendono la testa dei cortei e guidano la rivolta, sfidando il pugno di ferro dalle forze di sicurezza. La portavoce dell'Ufficio dell'Alto Commissario, Ravina Shamdasani, ha denunciato ieri l’operato della polizia iraniana, accusata di aver "sparato munizioni vere", oltre che di aver fatto ampiamente ricorso ai gas lacrimogeni. 

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Le donne iraniane protagoniste delle manifestazioni

Il corpo delle donne è al centro della protesta che prende forma per le strade del Paese e si riversa sui canali social. Si tratta spesso di gesti estremi e liberatori. I falò di hijab illuminano le notti iraniane da 5 giorni a questa parte. Per molte ragazze non basta liberarsi di questo oggetto con cui convivono quotidianamente. Una volta sfilato dal capo, decidono di bruciarlo e di sventolarlo in fiamme come fosse una bandiera di libertà. A Kerman, nell’Est, il taglio dei capelli si è svolto in piazza trasformandosi in una vera e propria cerimonia collettiva. Una donna circondata dalla folla di manifestanti sfronda la chioma, atto politico che è diventato endemico tra le nuove generazioni. La cantante Donya Dadrasan ha affidato la sua protesta ai social. In un video di Tik Tok, munita di forbici, ha lasciato che le ciocche cadessero una a una davanti alla telecamera accesa del telefono. Ha anche esortato i suoi follower a dare voce al messaggio delle ragazze iraniane, spiegando che ad uccidere Mahsa è stata “la Gestapo islamica” rappresentata dalla polizia morale. 

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La storia di Melika

Tra le centinaia di arrestati c’è anche Melika Qaragozlu, condannata a 3 anni e 8 mesi di carcere per aver preso parte alle manifestazioni, come ha riportato il suo avvocato Mohammad Ali Kamfiruzi. È accusata di attentato alla sicurezza nazionale.  Non è la prima sentenza per l’attivista che ha già conosciuto le prigioni iraniane. Ad agosto era stata rilasciata su cauzione dopo aver fatto un mese di carcere. Era stata arrestata a luglio per aver rivendicato la sua libertà religiosa postando una foto sui social in cui sfidava l’obbligo del velo. Melika non ha esitato a unirsi anche alle proteste delle ultime ore, pubblicando un video di pochi secondi a capo scoperto, rivendicazione che le è costata la libertà. 

Il contesto in cui è esploso il caso Amini

Il caso Mahsa Amini è esploso in un momento di forti tensioni tra società civile e establishment. Il 15 agosto scorso il Presidente Raisi, desideroso di dare concretezza alla sua fama di ultraconservatore, ha firmato un decreto particolarmente restrittivo che interviene in senso reazionario sul codice di abbigliamento femminile con una lunga lista di prescrizioni.  Ufficialmente le donne come Mahsa sono trattenute per svolgere dei corsi in cui re-imparano a indossare il velo correttamente e ripassano le regole di condotta. La rieducazione in realtà si trasforma in privazione completa della libertà personale e i centri rieducativi diventano zone d’ombra all’interno delle quali, secondo gli attivisti, le ospiti ricevono maltrattamenti e subiscono torture.

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