Il braccio destro di Aleksej Navalny, il leader dell’opposizione russa ora in carcere, parla del futuro e del presente della sua nazione e vede un cambiamento necessario e non distante nel tempo. Grazie anche all’azione dell’Occidente
Londra – “Non sogno di tornare nel mio Paese: sono sicuro che accadrà”. Si conclude così la lunga intervista con Vladimir Ashurkov, braccio destro di Aleksej Navalny, condannato pochi giorni fa a 9 anni in carcere. Ashurkov si trova in esilio a Londra da ormai 8 anni, ma è ancora il direttore esecutivo della fondazione anti corruzione voluta dal leader dell’opposizione russa. Tramite i legali, i due mantengono un contatto settimanale. L’organizzazione che gravita intorno al nemico numero 1 del presidente Vladimir Putin gli manda, attraverso i legali, il materiale da esaminare, ottenendo così un feedback e le direttive su come gestire la comunicazione sulle diverse piattaforme.
Una condanna non inaspettata
“La notizia della condanna a nove anni è stata di per sé drammatica, ma non è che non ce la aspettassimo – spiega Ashurkov – Quando Aleksej è tornato a Mosca da Berlino immaginavamo che Putin avrebbe cercato un modo per metterlo in prigione. Ma non penso che resterà dietro le sbarre tutto quel tempo: il cambiamento il Russia arriverà prima. Il regime di Putin sta diventando sempre più fragile e penso che l’aggressione in Ucraina l’abbia ulteriormente indebolito”.
Gli chiediamo allora se immagina un giorno l’amico e alleato politico alla guida della Russia. “Noi siamo un’organizzazione politica. Pensiamo che la Russia debba essere un Paese democratico. Fa parte della civiltà europea. Sì, certo: Navalny è il nostro leader, è un politico carismatico, ma noi stiamo lavorando non per mettere al potere una persona in particolare. Stiamo lavorando perché la Russia diventi un Paese dove lo stato di diritto sia ristabilito.
Un cambio di regime con l'aiuto dell'Occidente
Alla domanda su cosa ci voglia per ristabilire (o, meglio, stabilire) un ordine democratico a Mosca, la risposta non ammette equivoci: “Non solo Putin se ne deve andare, ma anche tutta la cerchia degli oligarchi”. E a commento di quanto dichiarato dal presidente americano Joe Biden a Varsavia (il tanto criticato “Putin se ne deve andare”), Ashurkov dice: “Penso che il mondo non sarà al sicuro finché Putin non verrà rimosso in qualche maniera. Noi, opposizione russa, lavoriamo in questo senso e penso che sia nell’interesse dell’Occidente adottare questa strategia. Con ogni probabilità i leader politici hanno diverse considerazioni da fare e devono stare attenti a quello che dicono, ma penso che la decisione di rimuovere Putin sia già stata presa nelle capitali occidentali”.
Affermazione, questa, che fa saltare sulla sedia. “Esaminiamo la situazione in Ucraina – prosegue -. Si può immaginare un cessate il fuoco e una sorta di accordo all’orizzonte. Ma la natura del regime di Putin, e della sua persona in particolare, porteranno a nuove aggressioni nell’arco di qualche anno nei confronti di Paesi vicini, che si tratti della Georgia, Finlandia o Lituania. Quindi, per evitare questa generale instabilità, destinata ad esserci finché Putin sarà al potere, è semplicemente una decisione razionale lavorare a una strategia che contempli un cambio di regime”.
L'efficacia delle sanzioni
Per facilitare questo processo, sicuramente anche le sanzioni, a giudizio di Ashurkov, giocano un ruolo importante. Per tanti anni sia lui che Navalny hanno insistito sull’importanza di sanzionare non solo società e istituzioni ma anche e soprattutto persone specifiche, con nomi e cognomi. Solo la guerra in Ucraina ha permesso che questo avvenisse. Ma le sanzioni, a detta del direttore dalla fondazione anti-corruzione, restano solo uno degli strumenti, tra diversi, che porteranno al cambiamento in Russia. “Rappresentano una sorta di motivazione per l’élite a cambiare”, spiega.
L'ambiguità di Abramovich
Ashurkov ritiene poi plausibile che si stiano effettivamente verificando degli episodi di insubordinazione sul campo, come riportato dall’intelligence inglese e da quella americana. “Il morale delle truppe è sicuramente molto basso, perché sono state dette cose che non erano vere”. Meno plausibile appare in vece, ai suoi occhi, il ruolo di mediatore di Roman Abramovich e il suo presunto avvelenamento. “Abramovich è un gran pr di se stesso”, è il suo lapidario commento.