Viaggio nell’estremo nord est russo, dove abbiamo girato le immagini esclusive sulla prima centrale nucleare galleggiante al mondo. Che Greenpeace definisce una possibile Cernobyl polare. Il reportage risale allo scorso dicembre ed è stato realizzato nella regione a cui deve la sua ricchezza l'ex presidente del Chelsea Roman Abramovich, grazie all'appoggio ottenuto dal presidente russo
Ho viaggiato molto nell’Artico, in luoghi remoti e quasi disabitati, per raccontare la grande trasformazione della regione a causa del cambiamento climatico. Ma in Chukotka è stato diverso, e non perché è stato dove ho affrontato le temperature più basse (media di -35). Si tratta di uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta, quasi quanto la Corea del Nord. Anche se ai giornalisti internazionali è interdetto praticamente tutto l’Artico russo, così che mancano informazioni sul campo da un’area cruciale della Nuova Guerra Fredda, la Chukotka è ancor più off limits. È l’estremo lembo di terra nella Siberia orientale che affaccia sullo Stretto di Bering e quindi guarda l’Alaska, gli Stati Uniti: un’area soggetta al regime speciale di zona di confine. Militarizzata e posta sotto la stretta sorveglianza dell’FSB, i servizi di sicurezza russi. Ma oggi è ancor più controllata da quando al porto di Pevek, la municipalità più a Nord della Russia, è entrata in funzione l’Akademik Lomonosov, prima centrale nucleare galleggiante al mondo, una piattaforma ancorata a poche centinaia di metri da una scuola con 500 ragazzi. Greenpeace l’ha chiamata una possibile Cernobyl polare…
È l’ultimo grande azzardo di Vladimir Putin nell’Artico. Il simbolo di una gigantesca strategia di sfruttamento di una regione sempre più accessibile a causa del progressivo scioglimento dei ghiacci. E ricchissima di risorse: petrolio, gas, minerali preziosi. Quando sono arrivato il direttore dell’impianto nucleare Vitaliy Trutnev parlava alla popolazione nel piccolo teatro comunale per conto di Rosatom, la società atomica di Stato. Garantiva che lo scopo dell’impianto era di portare luce e calore nelle case di Pevek, in sostituzione della vecchia centrale a carbone che regna come una nera cattedrale al centro dell’abitato. Ma la vera ragione è un’altra: alimentare lo sfruttamento degli enormi giacimenti, soprattutto rame e oro, presenti nella tundra e scoperti, con spirito pionieristico, dai geologi al tempo dell’Urss. Come Valentin Poskonitov, uno di quelli che ha poi deciso di fermarsi a Pevek. Valentin è tra i pochi che ha osato contestare la scelta di Putin e di Rosatom: “Per me è inaccettabile, la centrale si trova davanti al centro abitato... “, mi ha detto. “Quando sono venuti a parlarci i dirigenti della Rosatom ho chiesto in quale altro posto al mondo una centrale atomica è parcheggiata davanti a una scuola. Non mi hanno risposto. Non c’è sistema di sicurezza che possa garantire a queste latitudini…”.
Stiamo parlando dell’undicesima centrale atomica russa, la più a Nord del mondo e la prima unità nucleare mobile mai entrata in attività: una piattaforma di 21.500 tonnellate, lunga 140 piedi, larga 30, dotata di due reattori KLT-40S a uranio a basso arricchimento capaci di generare 70 megawatt e di rifornire d’energia elettrica e calore una città di 100 mila abitanti per 40 anni. L’idea del nucleare prêt-à-porter circola sin dagli anni Sessanta, anche gli Stati Uniti considerarono a lungo l’ipotesi. Ma fu scartata, pure dai russi, per ragioni economiche e di sicurezza. Rosatom su esplicita richiesta di Putin, ha rotto gli indugi, investito dieci anni di lavoro nei cantieri di San Pietroburgo e circa 450 milioni di euro di fondi statali, (comunque 10 volte meno del costo di una centrale nucleare tradizionale). Questa classe di reattori è ritenuta da Mosca l’unica soluzione per portare energia nelle aree più remote dell’Artico russo, consentire lo sfruttamento minerario e dei combustibili fossili, ma anche per agevolare la nascita di nuovi centri abitati. Infatti si sta costruendo una vera e propria flottiglia da ancorare nei porti lungo la cosiddetta Northern Sea Route, la via marittima settentrionale, il vecchio passaggio a Nord-Est; il Cremlino e Rosatom hanno annunciato che soltanto in Chukotka entreranno in azione altre cinque centrali (due entro il 2024) per un costo calcolato di 2.25 miliardi di dollari.
Jan Haverkamp, esperto nucleare di Greenpeace, è solo l’ultimo a lanciare l’allarme: “Non è un sommergibile o una rompighiaccio, questa è una chiatta che non ha possibilità di manovra”, dice. “Se si rompe l’ormeggio oppure è avvicinata da iceberg o investita da onde di blocchi di ghiaccio che succede? L’Artico si riscalda il triplo rispetto al resto del mondo, il progressivo scioglimento dei ghiacci crea condizioni inedite, è un oceano sempre più pericoloso, le tempeste possono avere una potenza impossibile da prevedere. E che cosa accadrebbe davvero in caso di tsunami, anche se Rosatom dice di aver calcolato anche quello? I russi hanno una lunga esperienza nel nucleare, ma anche una lunga storia di disastri nucleari. Sappiamo che cosa significa intervenire su incidenti nucleari in terraferma, figuriamoci in mare e in zone così difficili da raggiungere”. La radioattività della Akademik Lomonosov è 25 volte inferiore a Chernobyl, ma le conseguenze di un incidente, secondo Jan, sarebbero ingigantite dai venti artici e dalle correnti del mare di Siberia: “Sarebbe la fine per l’ecosistema più fragile del mondo”.
Nei giorni in cui sono stato a Pevek, approfittando della mezz’ora circa di chiarore concesso, ho utilizzato ripetutamente il drone senza permesso e senza conseguenze. Per ben quattro volte ha sorvolato la centrale da più lati, fino ad arrivare a poche decine di metri da quell’inquietante chiattona dalle linee squadrate e pittata con i colori della bandiera russa. E nulla è accaduto. Possibile che nessuno abbia intercettato un drone, nonostante l’Akademik Lomonosov sia presidiata sull’intera area est del porto da una “fortezza” armata dedicata solo alla sicurezza e sia ovviamente dotata di sofisticati radar? Qual è il livello reale di protezione e capacità d’intervento in caso di atto ostile o d’incidente? Un azzardo che si spiega con i numeri. Quasi il sessanta per cento del Pil della Russia arriva oggi dal Grande Nord. L’Artico è l’assicurazione sulla vita per il Cremlino, un bottino da saccheggiare, presidiare e difendere. E la Chukotka è il nuovo Klondike dell’Artico. Con Valentin e altri a Pevek si finisce sempre a parlare di Roman Abramovich, l’oligarca che prima di passare al Chelsea fu dal 2000 al 2008 governatore della Chukotka. C’erano dei legami sentimentali con il Grande Nord, i nonni erano stati internati nei gulag; ma si trattò soprattutto d’una questione, o affare, tra due amici: il magnate del petrolio che aveva investito più di ogni altro nell’ex Kgb.
Vladimir Putin veniva ricompensato dal nuovo zar con l’assegnazione della remota provincia artica. In pochissimi capirono allora, perché la Chukotka era la regione più miserabile della Russia. Dopo il crollo dell’Urss fu dove si schiantò più rovinosamente la valanga della crisi economica negli anni Novanta. La popolazione della Chukotka passò da quasi 150 mila abitanti ai circa 50 mila di oggi. E Pevek da 15 mila a 5 mila abitanti. C’era la fame, il latte era un lusso, mancavano anche le candele. La popolazione indigena, i 14 mila ciukci mandriani di renne annegavano la disperazione nell’alcol… Abramovich per riempire le casse del governo trasferì tre filiali di Gazprom ad Anadyr: con le sue tasse contribuì all’80 per cento del budget della regione autonoma. I benefici furono immediati. Più che mai evidenti a Pevek, dove, oltre alla scuola, all’ospedale, al nuovo municipio, negli anni Duemila vennero costruiti diversi palazzi, popolari e residenziali, che rendono ancora più spetrali i vecchi complessi sovietici abbandonati negli anni Novanta, diventati tane per branchi di cani randagi. Anche la popolazione nativa fu in parte risollevata, l’aspettativa media di vita tra i ciukci nel Duemila era di 34 anni, nel 2010 era di 38.
“In realtà Abramovich pagava le tasse a se stesso”, dice Valentin. “E comprava per due rubli dal governo, cioè da se stesso, enormi territori dove le mappe tracciate dai geologi sovietici come me, indicavano la presenza di ricchezze. Qui ci sono i più grandi giacimenti di rame e oro del pianeta”. E ora sono nelle mani dell’oligarca. Come quello di Baimsky dove sono state stimate riserve di rame per 9.5 milioni di tonnellate e 16.5 milioni di once d’oro. Soprattutto i depositi di Peschanka, nel distretto di Bilibino, dove si andranno ad estrarre 23 milioni di tonnellate di rame e oltre duemila tonnellate d’oro. In entrambi i siti minerari il magnate opera con la KAZ Minerals, la principale società per lo sfruttamento del rame del Kazakistan, ma con sede a Londra. Per sfruttare le miniere di Abramovich, Putin ha dato il via a questa soluzione della centrale atomica galleggiante, da trainare dove serve.
Per questo è arrivata l’Akademik Lomonosov a Pevek e il porto sta subendo giganteschi lavori d’ampliamento, con investimenti del Kazakistan e della Cina. Diventerà uno degli scali strategici della Via marittima settentrionale, che i cinesi chiamano la Via della seta polare. Dopo il recente blocco di Suez e a causa del prezzo delle materie prime schizzato con la pandemia, Putin ha messo fretta a Rosatom, che ha in carica lo sviluppo dei seimila chilometri di rotta artica, sempre più agibile con il progressivo scioglimento dei ghiacci, ma anche grazie alle portacontainer a propulsione nucleare in grado di navigare tutto l’anno senza bisogno di rompighiaccio: dalle attuali 40 milioni di tonnellate di merci transitate da e per l’Asia – in gran parte gas liquido naturale dai giacimenti di Yamal – il Cremlino punta di arrivare a 80 milioni entro il 2026. A Pevek dal 2018 l’aumento è stato di centomila tonnellate l’anno. L’oro e il rame di Abramovich finiranno in Cina, dove si consuma il 60 per cento del rame mondiale. Perché i cinesi dovrebbero andare a prenderlo in Cile, Perù o Australia se possono averlo dalla Chukotka? Basta superare lo Stretto di Bering e fanno il pieno.
Igor Ranav era, come tutti i chukchi, un mandriano di renne nella tundra; ma il talento per gli affari, dall’edilizia, ai servizi funebri, al mercato dei ferrivecchi, l’hanno emancipato dalla miseria e fatto un uomo ricco per i canoni della sua gente. Un paio d’anni fa ha messo le mani su un gigantesco vecchio Gaz-66 Ural 4x4, usato nelle miniere di stagno e l’ha convertito ingegnosamente in un overland capace di trasportare anche 15 persone sulle zimniki, le strade di ghiaccio e neve che attraversano l’interno della regione. Ci sono volute tre ore per arrivare a Rytkuchi, insediamento chukchi di circa 500 persone, a sud della baia di Chaun, un’area umida dove confluiscono tre fiumi, d’estate nursery per le renne e regno incontaminato per una decina di peschi autoctoni, compreso il “salmone preistorico”. Con la motoslitta raggiungiamo Sasha Prokopoiev, uno dei rappresentanti della comunità, nel suo balok, la cabina posata sugli sci dove ci si scalda con una stufa a cherosene durante la pesca nel ghiaccio. Il freddo è spaventoso, appena usciti dal buco i pesci sfrigolano come fossero gettati vivi nell’olio bollente. Sasha conferma che stanno costruendo un nuovo porto per il rame e l’oro di Abravovich, a capo Nagleynin, chiamato “il grembo del mondo” dai chukchi; è dove i mandriani di Rytkuchi portano le loro 25 mila renne a ingrassare prima del parto. “È così da 400 anni”, dice. “Ma tra 5 anni non ci saranno più i pascoli, non ci saranno più le renne e scompariranno i villaggi, perché non esiste vita nella tundra senza le renne”.
Un miliardo di euro già stanziati da Mosca per il porto. Incerta la cifra che pagherà la KAZ Mining per la strada che collegherà le miniere del distretto di Bilibino a capo Nagleynin: “Potrebbero usare il porto di Pevek, ma così risparmiano 400 chilometri ai camion. Quella strada impedisce la migrazione delle renne, e poi deviano il corso superiore dei fiumi, dove i nostri pesci depongono le uova. Per estrarre l’oro impiegano il cianuro, che finisce nei fiumi. Per noi la tundra non è questione di proprietà, ma di responsabilità”. Le comunità hanno scritto una lettera all’Onu, appellandosi alla dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene. Igor è in prima fila, si tratta della sua terra e della sua gente: dice a Nagleynin piazzeranno cinque piattaforme come l’Akademik Lomonosov. “Quando è arrivato Abramovich, la nostra vita è senz’altro migliorata”, dice Igor guardando fuori dall’oblò, sull’estuario ormai nero inghiottito dal buio. “I suoi uomini distribuivano cibo, a ogni elezioni a Rytkuchi arrivavano con ferri da stiro, televisori e giocattoli per i bambini. In realtà ci ha spennato come polli. Avrà anche investito un miliardo, ma ne ha presi dieci, venti, chi lo sa quanti. Ci ha comprato con le perle di vetro, in cambio s’è preso la Chukotka. Ora siamo solo cinquecento intralci sulla loro fottuta strada”.