Muri, coyotes e pannolini: dove muore il sogno americano

Mondo

L’inviato Marco Congiu dal confine tra Stati Uniti e Messico

Sky TG24 alla frontiera tra Stati Uniti e Messico per raccontare il più grande esodo migratorio degli ultimi vent’anni

Sono poco più tremila km, da Tijuana, in Messico, a Brownsville, in Texas. E solo un terzo è davvero separato da un muro, che in realtà non è un muro bensì una barriera di ferro e filo spinato, e poi telecamere, sensori e pattuglie di agenti di frontiera. Qui, al confine tra Stati Uniti e Messico, è dove muore il sogno americano. Dove la rinascita annunciata da Joe Biden rischia di schiantarsi. Solo a febbraio, lungo questa frontiera sono stati arrestati oltre 100 mila immigrati illegali, +28% sul mese precedente, quando alla Casa Bianca è arrivato il nuovo presidente democratico. Di questi, 72 mila erano gli adulti soli, 19 mila le famiglie con figli, e 9450 i minori non accompagnati. Nelle prime tre settimane di marzo, la situazione è peggiorata ancora: gli agenti hanno fermato oltre 11 mila bambini; a fine mese saranno almeno 17mila, il massimo storico. Anche se la Casa Bianca lo nega, i numeri sono da vera e propria crisi umanitaria.

migranti confine messico

Violenze, povertà e disastri naturali nel centroamerica sono -secondo l’attuale amministrazione - le ragioni del più grande esodo degli ultimi vent’anni. Ma la promessa di Biden di far tornare l’America quella terra dell’accoglienza che è stata la sua fortuna, ha aggravato la situazione e gli si è rivoltata contro. El Paso è più o meno a metà del confine, incastrata tra Texas e New Mexico, e separata dal Rio Grande dalla sua gemella messicana, Ciudad Juàrez: scenari, aria, polvere e colori da moderno film Western. I ponti sul fiume sono uno dei porti di accesso agli Stati Uniti, e non è un caso che la via principale sia costellata di negozi di scarpe: chi ci arriva, ne ha bisogno di nuove. Abitanti e migrati qui si confondono fin troppo. E il famoso “muro di Trump” (che per la verità è ben precedente e Trump ha solo allungato) è una presenza costante. Entrare in Messico è facilissimo, paghi il pedaggio di 50 centesimi e nessuno chiede documenti. Uscirne (perfino legalmente) un po' meno. Le file si formano all’improvviso a tutte le ore del giorno, e non capisci mai se le persone davanti a te sono transfrontalieri o richiedenti asilo. Ci sono passeggini, bambole, carrelli dove i pochi averi sono stati ammassati alla rinfusa.

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Il muro anti-migranti sotto al Ponte del Paso del Norte di El Paso, Texas

Poi all’improvviso, mentre aspetti, li vedi, scortati dagli agenti della dogana. Sono quelli che non ce l’hanno fatta e vengono rimandati indietro. La mesta processione è composta per lo più da famiglie con bimbi piccolissimi, che ti passano accanto lentamente, e tutto a un tratto cala un silenzio rotto solo dai bambini che piangono. Rispediti dall’altra parte, e senza neppure i lacci delle scarpe -sequestrati dagli americani perché non vengano utilizzati per atti di autolesionismo- si trovano letteralmente in mezzo alla strada in una delle città più violente e pericolose del mondo. La maggior parte delle famiglie trova accoglienza presso organizzazioni umanitarie o governative. Che però sono ormai quasi tutte al completo. Herardo, invece, è solo. Ha 38 anni e viene dall’Honduras, dove aveva un negozio. Ha provato a scavalcare qualche mese fa a Tijuana, di notte, ma l’hanno acchiappato e deportato nuovamente nel suo Paese. Lui però è tornato. Racconta che arrampicarsi sul muro era difficile non tanto per l’altezza, quanto per la larghezza delle sbarre, ma si poteva fare. Poi, in cima hanno messo il filo spinato e tutto si è complicato. “L’hanno scorso ho provato a scavalcare anche da qui - mi dice davanti al muro sotto il Ponte del Paso del Norte - ma appena sono passato dall’altra parte, mi hanno preso… ci sono sensori, telecamere…”

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Alla Casa del Migrante di Juarez non lo possono accogliere, non hanno posto; “ma prova qui” dice una signora, passandogli un indirizzo. Anche se Herardo ha studiato sistemi informatici, non ha neppure un telefonino, ed è senza un soldo: “Sto solo cercando un posto dove riposare, fare una doccia, lavarmi i vestiti”. Quindi, decidiamo di accompagnarlo. La struttura dove arriviamo è gestita dal governo messicano, è più grande e organizzata. Dentro ci sono già 400 persone. Per un paio d’ore al giorno possono anche uscire per la spesa, come sta facendo una famiglia del Guatemala che aspetta l’autobus davanti all’ingresso. “Credevamo che ci facessero passare perché avevamo una bambina -racconta senza vergogna una signora dai denti dorati- siamo qui da tre mesi, scappati dal nostro paese perché troppo violento: abbiamo venduto casa per pagarci il viaggio e adesso non abbiamo più niente. Quindi speriamo che ci facciano entrare anche se non siamo nel programma dei migranti”. “Ma non sapevate che il confine era chiuso?” le chiedo con l’aiuto di Herardo. “Sì, ma confidiamo in Dio. Bisogna credere” risponde. Purtroppo, però, neanche in questo centro possono accogliere il nostro amico. Herardo deve prima registrarsi su internet (già: ma come?) poi trovare un posto dove fare la quarantena antiCovid. 

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Ci danno un altro indirizzo, prendiamo uno dei pochi Uber in circolazione (perché le loro auto sono geolocalizzate, quindi più sicure dei taxi…) e continuiamo la ricerca. “La maggior parte dei migranti viene dalle regioni del triangolo del Nord, quindi Guatemala, Honduras, Salvador, Nicaragua, e poi qualche messicano che fugge dai cartelli della criminalità organizzata” ci spiega Blanca Castillo. Anche lei è una immigrata. Aveva tre anni quando dall’Honduras arrivò qui con la famiglia. Oggi lavora in una associazione no profit che si occupa di coordinare le strutture di accoglienza. E ci svela il ruolo fondamentale che in questa crisi infinita stanno avendo i trafficanti di uomini. Che -appropriatamente- vengono chiamati “coyotes”: sciacalli. “Sono delle specie di guide che contattano gli aspiranti migranti con la promessa di farli entrare illegalmente negli Stati Uniti. La maggior parte di loro sono collegati ai cartelli, e ovviamente è un modo molto pericoloso di cercare di attraversare il confine. Molte persone finiscono per essere ricattate, o addirittura sequestrate, o separate dai propri figli”. “Quanto vogliono per far attraversare il confine?” chiedo. “In media prendono tra i 6 e gli 8 mila dollari a persona -dice Blanca- che possono aumentare a seconda della difficoltà dello specifico attraversamento”. Praticamente, uno o due anni di stipendio. Non sorprende che chi arrivi così non abbia più niente. Nelle terre di confine, si sa, sono sfumati anche i contorni delle leggi.

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Nel 2019 il presidente Trump inventò il Protocollo di Protezione dei Migranti, un programma dal nome rassicurante, meglio conosciuto con una abbreviazione che ne svelava la vera natura: “Rimanete in Messico”. In attesa che la loro situazione venisse esaminata dalle autorità, infatti, i richiedenti asilo dovevano aspettare oltreconfine. L’amministrazione Biden lo ha fermato e dal mese scorso ha iniziato ad affrontare le situazioni pendenti di 25 mila persone. Ma non ha mai abbattuto il vero muro. Che si chiama Titolo 42, e che è la norma introdotta dal suo predecessore per disporre l’espulsione immediata per ragioni sanitarie (Per inciso, rientrando negli Stati Uniti, al vostro cronista non è stato chiesto alcun test anticovid). Nella pratica, oggi i migranti che passano il primo controllo vengono caricati su pulmini e portati al Centro di Processamento, un edificio dove la loro posizione sarà ulteriormente approfondita. Per loro è già una vittoria: salutano dal finestrino, pensando di avercela fatta. Ma quasi tutti saranno rimandati indietro, o nel migliore dei casi ospitati nei centri che il governo americano sta aprendo per reggere gli arrivi e smorzare le polemiche. Come quello di Pecos, accanto a una strada interstatale nel mezzo del nulla tra Midland ed El Paso, che dovrà accogliere tra i 500 e i 2000 bambini non accompagnati. Tutt’ora, circa 5mila di loro sono in custodia presso l’agenzia doganali, che ovviamente non è attrezzata ad ospitare i minori. Per legge, oltretutto, i bambini non potrebbero restare lì più di 72 ore prima di essere trasferiti in strutture dei servizi sociali, ma in centinaia sono lì da ben oltre dieci giorni. Ricevono 3 pasti quotidiani -mettono le mani avanti le autorità federali- e possono fare la doccia ogni 48 ore. Ma la precisazione suona piuttosto come la descrizione di un regime carcerario. E a vederlo vi assicuro che non appare molto diverso.

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Il pellegrinaggio nella polverosa periferia di Juarez con Herardo sta per concludersi: il mio cameraman ed io dobbiamo tornare negli Stati Uniti, trattenersi all’imbrunire non sarebbe prudente, anche se lui (che pure rientra nel programma di protezione migranti) non sa ancora dove dormirà stanotte. Ma abbiamo un altro indirizzo, questa volta abbastanza vicino perché Herardo lo raggiunga senza di noi. Ci salutiamo davanti al ponte del Paso del Norte, quello che lui non può percorrere, a pochi metri dagli Stati Uniti. “Così vicino, così lontano per me -dice, guardando di là- …Il sogno americano... Per molte persone è facile andarci ogni giorno per lavoro. Io non ho questa opportunità”. L’Amministrazione americana ripete di voler trattare i migranti con umanità. Ma anche per le necessarie misure di distanziamento le strutture attuali si sono rivelate insufficienti. E alla fine Washington si sta ritrovando a chiedere aiuto ai paesi di origine di questi disperati, in modo non troppo diverso da come faceva Trump. “Non venite adesso, non è ancora il momento” ripete Biden. La Casa Bianca ha comprato migliaia di spazi pubblicitari sulle radio locali, perché chi scappa da fame e morte non guarda le conferenze stampa. E spesso, comunque, si incammina ugualmente. Ma niente.

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Qualche km più ad ovest, appena fuori El Paso, nel Nuovo Messico, c’è Anapra, villaggio di casupole e roulotte sparse nel deserto tra i due Paesi. Qui, la sensazione è che la frontiera sia un colabrodo. Gli agenti della frontiera raccontano che ormai è normale fermare gruppi anche di cento persone, e che sempre più spesso nei loro pattugliamenti si imbattono nella scia di pannolini lasciati indietro da chi scappa, e che segnala una nuova rotta dell’immigrazione clandestina. Un pezzo di muro senza senso -un centinaio di metri piazzati tra le dune che entrano nella montagna e si fermano lì- sembra un monolite surreale. Storicamente, i muri sono stati fatti per essere prima scavalcati, poi abbattuti. Ma quel giorno, qui, non è ancora arrivato.

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