È in libreria "La mia scelta", il libro del polacco Krzysztof Wielicki, leggenda vivente dell'alpinismo himalayano, che quest'anno ha vinto il Premio Piolet d'Or alla carriera. Sky Tg24 lo ha incontrato in occasione dalla prima edizione di Milano Montagna Week
«In montagna mi concentro solo sull'arrampicata. E quando arrampico tutto il resto non esiste. Sparisce. Persino la famiglia. Proprio tutto ... Non c’è più nient’altro. Solo io e la montagna». Lo sguardo mansueto, quasi timido, non riesce a ingannare. Sono gli occhi di chi ha visto tante volte la morte da vicino, ma la vita, quella, gli brucia proprio dentro. Dopo oltre quattro decenni di montagna Krzysztof Wielicki, polacco, 69 anni, è, di fatto, ancora in attività. Un’autentica leggenda dell’alpinismo himalayano. Il Premio Piolet d’Or 2019, forse il massimo riconoscimento internazionale per un alpinista, quasi non lo menziona nemmeno. Forse per pudore, forse perché i premi alla carriera gli danno un po’ fastidio: «Li danno ai vecchi» dice quasi per scusarsi.
Una carriera iniziata negli anni settanta
«Io e gli alpinisti della mia generazione siamo nati nel momento giusto. Erano anni, in Polonia, in cui avere sogni era difficile. Per noi, andare in montagna, era un modo di realizzare i sogni. Eravamo convinti che avremmo potuto scrivere la storia. È così che siamo scappati tutti in montagna, specialmente in Himalaya». Erano gli anni ’70 e poi ’80, dagli Stati Uniti arrivavano gli echi di nuove filosofie dell’andare in montagna. Meno conquista, meno retorica della sofferenza, più piacere nel contatto con la natura, nella libertà che ambienti vergini e incontaminati davano soprattutto alle nuove generazioni. Anche sulle Alpi qualcosa stava cambiando, erano gli anni in cui il mondo, non solo quello degli addetti ai lavori, cominciava a conoscere le imprese dell’altoatesino Reinhold Messner. E sullo sfondo mediatico della sfida alle 14 vette più alte del Pianeta, era nata la fortissima “scuola polacca”, composta da scalatori fortissimi del calibro dello scomparso Jerzy Kukuczka e, per l’appunto, di Krzysztof Wielicki.
Dalle Alpi al Caucaso, dal Pamir all'Hindukush e all'Himalaya
Tutti alpinisti che, dopo essersi misurati con le ripetizioni delle grandi vie classiche sulle Alpi e sull’Himalaya, percorsero la via difficile delle grandi salite solitarie e invernali. «Abbiamo seguito la nostra strada – dice Wielicki – Lo pensavo allora e lo penso ancora adesso: era l’unica strada che potevamo percorrere. Prima le grandi vie di roccia sulle Dolomiti, le vie di misto sulle Alpi, il Caucaso. Poi il Pamir, l’Hindukush. E ovviamente l’Himalaya. Tutto per gradi, senza saltare le tappe, ripercorrendo in pochi anni la storia dell’alpinismo classico. Un percorso sicuro, perché le esperienze le devi fare davvero, per diventare esperto».
Quel chiodo in tasca
Una carriera, la sua, fatta soprattutto di salite uniche, che hanno cambiato la storia dell’alpinismo. A partire dalla prima ascensione invernale all’Everest. Era il 1980 e nessuno fino ad allora aveva scalato un ottomila con la brutta stagione. Nel ’96 la sua ascensione solitaria al Nanga Pàrbat, il suo quattordicesimo ottomila, noto come “la montagna assassina”, un’altra svolta nell’esplorazione himalayana. «Ci ho messo quattro giorni ad arrivare in cima – ricorda Wielicki – Ero completamente solo, e per la prima volta nella mia vita ho pensato: forse dovrei avere una prova che ce l’ho fatta. Appena sotto la vetta una vecchia spedizione che vent’anni prima aveva fatto una ripetizione in stile himalayano, con portatori e ossigeno, aveva abbandonato del materiale. C’erano un paio di cordini con un moschettone, cui era ancora attaccato un chiodo, sul quale c’era scritto: Austria ’76 – High Mountain – Graz. Presi quel chiodo con me. Anni dopo, al Trento Film Festival della Montagna, parlavo a una conferenza organizzata da Reinhold Messner sulla storia dell’alpinismo. Quando ho tirato fuori quel chiodo dalla tasca, dal fondo della sala si è alzato un alpinista e ha confermato: sì, quello è il mio chiodo, disse. Sorrisi, perché ai nostri tempi se tu salivi una via e dicevi di averla salita, tanto bastava. Per il mondo intero l’avevi salita. Quella volta avevo da anni la prova in tasca, e il mondo lo scoprì quasi per caso»
"La più grande emozione della mia vita? Il Lhotse"
«Qual è stata la più grande emozione della tua carriera alpinistica?» chiedo. «Il Lhotse (8.516 metri, quarta cima più alta della Terra n.d.r.) – risponde lui dopo averci riflettuto – È stata la prima ascensione assoluta al mondo in solitaria e invernale di quell’ottomila. La salita è andata bene, ero veloce ed è filato tutto liscio. La discesa è stata tutta un’altra storia. Avevo avuto un incidente serio in montagna qualche mese prima ed ero costretto ad arrampicare con un busto, perché avevo una vertebra incrinata. Scendere di là è stato un incubo. Il ghiaccio era durissimo e ogni volta che picchiavo le piccozze o i ramponi sulla superficie del ghiaccio era una sofferenza tremenda. Mi sentivo lento e scoraggiato. Questo per la prima volta mi diede la sensazione che non ce l’avrei fatta a uscire di lì. Ho pensato veramente che …». Si ferma un attimo Wielicki, sorride malinconico. Scaccia un pensiero. «La più grande vittoria della tua carriera alpinistica?» gli chiedo. «Sono vivo – dice con un sorriso – Noi alpinisti pensiamo di essere immortali. Siamo veramente convinti di essere in grado di risolvere tutti i problemi e di tornare a casa. Purtroppo non è sempre così. Ci frega la passione. Per la passione si muore, e la passione non la puoi cambiare».
"Non si vive in montagna senza paura"
«Quanto conta la paura?» «Tanto. Non si vive in montagna senza paura. Se non hai paura come fai a prendere la decisione giusta?» «E quando sei in cima cosa pensi?» «Che voglio scendere subito, prima possibile. Non c'è niente di veramente romantico lassù ... – ride, quasi imbarazzato – C’è la stanchezza, il freddo. E la morte che ti guarda. Perché quando arrivi in cima sei solo a metà». «Progetti?» «Prima di smettere voglio finire il mio progetto di esplorazione invernale. Mi manca solo un Ottomila, il K2. Ho provato tre volte in inverno, ho fallito tre volte». «Settant'anni non sono troppi per una cosa del genere?» chiedo stupito. Lui sorride, come a giustificarsi. Senza ostentazione. «Sto bene» dice solo. Poi ci pensa e aggiunge: «Credo che l’alpinismo non sia nelle braccia. È qui, nella testa».