Carovana migranti, un racconto sul campo

Mondo

Giovanna Pancheri

La carovana dei migranti partita dall'Honduras è arrivata a Tijuana, ad un passo dal confine con gli Stati Uniti. Siamo andati tra di loro. 

Maria ha appena 22 anni, ha gli occhi vispi, una maglietta nera con delle paillettes dorate che formano la scritta USA, quando la incrocio nello stadio Benito Juarez che accoglie a Tijuana i migranti della carovana cammina sottobraccio con il suo ragazzo che ha conosciuto durante la lunga marcia, durante quei 30 giorni in cui dall’Honduras hanno attraversato tutto il centroamerica accolti a volte dalle proteste, ma molto più spesso dagli incoraggiamenti. «Nel Chapas la gente ci applaudiva, ci portava cibo e acqua – racconta – faceva molto caldo, è stata dura, ma i sorrisi delle persone ci hanno dato la forza». Lei è una dei primi 2500 migranti che ce l’hanno fatta ad arrivare ad un passo dal sogno americano.

Da quello che era il campo da calcio dello stadio, si vede il muro che delimita il confine con gli Stati Uniti, quello più difficile da attraversare, ma l’impressione parlando con le persone arrivate fin qui è che in fondo una parte dell’obiettivo sia già stato raggiunto. «La California è lì, respiriamo la stessa aria» continua Maria che si adombra solo quando racconta le ragioni della sua fuga. «Facevo la venditrice ambulante a San Pedro Sula ed un giorno sono arrivati due tizi a dirmi che dovevo pagare il pizzo se volevo continuare a lavorare. Per un po’ ci sono riuscita, ma poi hanno aumentato la cifra. Ho anche due bambini o pagavo gli aguzzini o davo da mangiare a loro, non ce la facevo. Ho provato a parlarci e come soluzione mi hanno proposto di prostituirmi, così ho deciso di partire». I figli, nati da una precedente relazione, li ha lasciati in Honduras con sua madre. «Erano troppo piccoli, non me la sono sentita di fargli affrontare questo viaggio. Preferisco aiutarli trovandomi un lavoro e mandandogli i soldi, aspettando che possano raggiungermi». Ma Maria è stata tra le poche ad aver fatto questa scelta. I bambini nel campo sono centinaia e di tutte le età, c’è persino una figlia della carovana, la piccola Juanita di appena tre settimane. «Per lei sogno in grande. Voglio che studi e che diventi una professionista, un’americana» spiega la madre Estrella che ha deciso di partire quando gli strozzini del padre artigiano hanno ucciso suo fratello e minacciato la sua famiglia. Le storie degli uomini e delle donne dello stadio Benito Juarez si somigliano tutte, sono storie di violenza e di povertà perché come sottolinea il dot. Keller, un medico volontario di New York: «non ti fai a piedi migliaia di km solo per scappare dalla fame».

Nello stadio lo spazio inizia a scarseggiare. Arrivano qui in autobus da Città del Messico al ritmo di centinaia al giorno, i primi arrivati sono riusciti a conquistarsi un letto in uno dei dormitori allestiti nella palestra, ma la maggior parte dorme per terra su materassi improvvisati. Alcuni hanno delle tende da campo, altri usano coperte e buste della spazzatura per ricreare una parvenza di riparo. Le docce sono per lo più all’aperto e sono ormai territorio degli uomini. Di bagni chimici ne ho contati almeno 20. C’è una cisterna di acqua potabile che viene anche usata per lavarsi i denti o il viso. I due lavandini all’esterno infatti sono diventati la lavanderia del campo. I panni stesi sono ovunque: sui rami degli alberi, sulle corde che tengono i tendoni, sugli spalti dello stadio. In un angolo gli uomini giocano a carte a soldi a due passi dal piccolo parco giochi: sei altalene, uno scivolo e poche altre strutture su cui i bambini si arrampicano felici. Qualcuno ha rimediato un pallone e nel campo, tra le tende si gioca anche a calcio. C’è anche chi esce attirato dal megafono di un predicatore evangelico che fa il suo sermone nello spiazzale di fronte allo stadio, dando la sua benedizione alle persone inginocchiate sull’asfalto. Una delle poche prese di corrente è dedicata ad un amplificatore che serve sia per dare messaggi a tutta la carovana, sia soprattutto per la musica. Dopo pranzo e dopo cena c’è sempre qualcuno che prende in mano il microfono. Si canta, si balla e si ride molto. D’altronde c’è ancora l’euforia per il traguardo raggiunto, ma è difficile immaginare che questi sorrisi saranno ancora lì tra uno o due mesi. Per chi ha intenzione di fare domanda d’asilo negli Stati Uniti infatti i tempi di attesa sono lunghissimi. Si parla di almeno sei mesi. «Sei mesi qui accampati in queste condizioni sono insostenibili dal punto di vista igienico sanitario» denuncia il dot. Keller che si domanda come mai non siano ancora arrivati qui l’Onu e le varie agenzie preposte alla tutela dei rifugiati. In realtà qualche volontario si vede anche se i più ricercati in queste ore sono gli avvocati delle ONG locali pronti a valutare i casi e a spiegare la documentazione necessaria per presentare domanda di asilo.

Ma oltre ai rischi umanitari all’interno a preoccupare sono anche i dintorni dello stadio. Il centro si trova, infatti, in una delle zone più malfamate di Tijuana, terra dei cartelli della droga più feroci del Messico. Questa è zona di spaccio, di prostituzione e traffico di persone e i migranti della carovana sono facili prede. Secondo i loro racconti c’è già chi si aggira nel campo offrendo la possibilità di attraversare il confine illegalmente. «Gira voce che chiedano 1500 dollari» ci racconta un ragazzo. In realtà, le tariffe soprattutto dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca con l’inasprimento dei controlli alla frontiera sono molto più care, ma è anche vero che qui i potenziali clienti non scarseggiano e nella legge della domanda e dell’offerta criminale è anche immaginabile che in questa situazione si stiano proponendo prezzi più competitivi. Fuori dallo Stadio c’è anche una piccola protesta di un gruppo di abitanti di Tijuana contrari alla carovana. «Ci costano un sacco di soldi, non possiamo permetterceli e poi vogliamo parlare della sicurezza? Li dentro è pieno di criminali violenti… stuprano le donne… portano la droga…Il Messico ai Messicani!» Urla minacciosamente un uomo a volto coperto che indossa la maglietta verde della Nazionale di calcio, parole che ricordano le tante di Donald Trump contro i migranti messicani illegali… D’altronde, c’è sempre un Sud a sud del Sud.

Ps In questa pagina trovate uno dei vari reportaga fatti in questi giorni di lavoro a Tijuana. Se vi interessa l'argomento e volete vedere anche gli altri volti di cui parlo in questa 'lettera' trovate tutto sul sito di Sky TG24.

 

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