Secondo l’amministrazione Trump il regime di Teheran è il nemico numero uno e l’artefice di tutti i complotti in Medio Oriente e, nel suo discorso all’Onu, Trump ha ribadito che continuerà l’opposizione agli ayatollah. Ma perché frustrare ogni tentativo di dialogo?
Trump è sicuramente un repubblicano stravagante sotto molti aspetti, ma nella politica estera bisogna dire che si colloca perfettamente nella tradizione del Great Old Party. Magari con qualche eccesso di entusiasmo. Soprattutto per quel che riguarda il Medio Oriente. Alleato senza indugi di Israele e Arabia Saudita, amico delle monarchie del Golfo (Emirati e Dubai, con l’eccezione del Qatar), è, soprattutto, acerrimo nemico della Repubblica Islamica dell’Iran. Secondo l’ottica trumpiana non c’è crisi dell’area che non porti la firma degli ayatollah: Siria, Libano, Iraq, Afghanistan, e tutte le aree dove sono presenti minoranze sciite, come lo Yemen e il Bahrein. Del resto, chi era – anche secondo la dottrina Bush – il perno dell’”Asse del Male”? Per questo l’accordo sul nucleare siglato da Obama è il male. Per questo bisogna rafforzare le sanzioni. Per questo bisogna sostenere tutti movimenti di opposizione al regime. Anche i meno presentabili come Mujaeddin-e-Kalq: una formazione considerata un gruppo terroristico da Europa e Usa fino a non molto tempo fa.
Ma si sa, la politica estera non è un pranzo di gala (per dirla alla Metternich) e a volte si hanno strani compagni di letto. Però. Resta da chiedersi se tanta ostilità abbia un fondamento. Certo, il passato non pende a favore di rapporti cordiali: deposizione di Mossadeq, crisi degli ostaggi, guerra Iran – Iraq, in ordine sparso, sono macigni. Guardando all’oggi, per onestà bisogna ammettere che ci sono pochi motivi perché Washington e Teheran si siedano attorno al tavolo e discutano cordialmente.
In effetti l’Iran - denuncia la storica e scrittrice Farian Sabahi - cerca di estendere la sua influenza sulla regione alimentando l’instabilità in diverse aree. E nonostante si proclami una democrazia, si deve ammettere che ha criteri piuttosto discutibili con cui la attua. Non sono questi però i prerequisiti per andare d’accordo. E lo dimostrano i rapporti cordiali con regimi come l’Arabia Saudita o – cambiando scenario - la Corea del Nord. Quindi forse la domanda è mal posta.
Non è se tanta ostilità abbia un fondamento, ma se sia conveniente. E allora in quest’ottica le cose hanno un senso. Dichiarando l’Iran il male, Washington coltiva i rapporti con Riyadh e Israele, protegge gli interessi delle monarchie del Golfo. Tutti storici alleati. E fornitori di petrolio. Dall’altro Teheran può distogliere l’attenzione sulle magagne interne (inflazione record, economia in picchiata, violazioni dei diritti umani e politici) e puntare il dito contro il “nemico sionista e americano”.Un gioco delle parti che, per certi versi, fa comodo a entrambi.
Finché dura.