"L'Unione Europea si sta comportando come l'Unione Sovietica, punendo chi vuole lasciarla", aveva detto pochi giorni fa Jeremy Hunt commentando i negoziati Brexit. "Non è saggio ed è un insulto", gli risponde oggi Donald Tusk. Ed è difficile dargli torto.
Forse è arrivato il momento di dirlo, scandirlo, e ribadirlo. Provocare è un conto, dire sciocchezze un altro. Attraverso una provocazione si può far progredire un dibattito o, come in questo caso, un negoziato; attraverso un insulto difficilmente si faranno passi in avanti. Soprattutto, non tutte le provocazioni sono tali, ma "provocazione" è il termine che sempre si usa per rendere socialmente accettabile l'insulto, l'eccesso, la bugia, l'iperbole spesso e volentieri in cattiva fede; pronti a ritrattarla, "era solo una provocazione", e nel frattempo avrà fatto la sua strada, raggiungendo le orecchie più sensibili, spesso facendo i suoi danni.
Con queste premesse, è difficile dare torto al Presidente del Consiglio UE. Tusk sotto il controllo dell'Unione Sovietica ha passato metà della sua vita; è stato tra i manifestanti dei cantieri navali di Danzica dove, tra le bandiere bianche e rosse di Solidarnosc, è iniziato a cadere il Muro di Berlino; è stato Presidente della Polonia finalmente libera e democratica. Sentire paragonare l'atteggiamento di Bruxelles nei confronti di Londra al tavolo dei negoziati a quello di Mosca nei confronti, ad esempio, di Budapest o Praga ai tempi della Cortina di Ferro deve averlo colpito non poco. E ci deve essere una morale, se si trova proprio lui oggi nella posizione di rispondere alle dichiarazioni strumentali di Hunt: "l'Unione sovietica, dice Tusk, era prigioni e gulag, confini e muri, violenza nei confronti dei cittadini e nei confronti dei vicini. L'Unione europea è libertà e diritti umani, prosperità e pace, vita senza paura; ed è democrazia e pluralismo, un continente senza confini interni e muri".
Con tutti i difetti di questa Unione; con tutti i passi falsi, e le omissioni; con tutti gli enormi margini di miglioramento, è difficile dare torto a Tusk. Hunt, poi, ha ritrattato la sua affermazione; ma, ancora una volta, il danno era già stato fatto. Musica, le sue parole, per le orecchie di euroscettici brexiters e complottisti. A volte, basterebbe studiare la storia, per vedere le differenze tra chi manda i carri armati e chi chiede di non alzare confini che metterebbero a rischio la pace irlandese.
Nel frattempo, ci vorrebbe un impegno collettivo: neanche una provocazione passerà impunita. Chi parla si prende la responsabilità delle proprie affermazioni.
Nel frattempo, un appunto. Benché al numero 10 di Downing Street risieda una Premier conservatrice, e benché principale azionista del suo esecutivo sia il Partito conservatore, è evidente che ad avere le chiavi, del numero 10 di Downing Street, sia un'altra donna, ovvero Arlene Foster, leader del DUP, il Partito democratico unionista dell'Irlanda del Nord. Sono infatti suoi i 10 voti che garantiscono al governo la maggioranza a Westminster. Voti che ha garantito con massima fedeltà e costanza, voti che però sparirebbero - e lo ha ribadito ancora una volta in settimana - nel momento in cui la bozza di accordo tra UE e Regno Unito prevedesse una qualsiasi forma di controllo nel Mare d'Irlanda. E siccome sembra che Chequers 2.0 vada proprio in quella direzione, ci si chiede che cosa accadrà, quale delle due Lady chiamerà, per prima, il bluff - o la fine dell'esecutivo.
Nel frattempo, una riflessione. Nel 2008 l'amministrazione Bush lasciò fallire Lehman Brothers, sottovalutando la portata e le conseguenze di quel singolo episodio in un momento già difficile a causa della crisi dei mutui subprime. Semplicemente, analisti e politici non immaginarono, non capirono, il possibile e probabile l'effetto domino. Non vorrei che, dieci anni dopo, ci si stesse indirizzando verso un'altra situazione simile. E non a causa della Brexit, che bene o male i mercati hanno già "digerito"; ma a causa di una - possibile se non ancora probabile - Brexit senza accordo. Non solo le conseguenze, ma proprio questa eventualità non è ancora stata processata, nella City come a Wall Street come a Piazza Affari. L'ultimo allarme, in ordine di tempo, arriva proprio oggi dalla Banca Centrale Irlandese: attenzione, dice, se entro novembre non sarà chiaro che un accordo è a portata di firma dovremo aspettarci "volatilità". Un termine che, con sé, non porta mai niente di positivo.